Dracul: il mito del resurgente

Premessa

Perché una monografia sul vampiro? In questi tempi tecnologici dove la razionalità impera, un mito come quello del resurgente suscita curiosità ancor prima che brivido. L’immaginario collettivo a fronte della ragione contrappone sempre un qualcosa  che tenta di confutare le sue leggi. Il mito del vampiro ne è un esempio.

Lungi dall’essere una perdita di tempo o diseducativo, lo studio del mito è un’impresa scientifica molto proficua. Il mito c’insegna con esattezza chirurgica tutto quello che abbiamo bisogno di sapere sull’essere umano e sulla sua natura psicologica. Chi studia approfonditamente Jung, ad esempio, massimo fra gli studiosi del mito nella cultura psichiatrica del XX secolo, sa  benissimo che non c’è nulla di “magico” e “stregonesco” nella sua teoresi, ma quanto di più fisico e matematico si possa supporre. Studiare il mito, dunque, vuol dire fornirsi di una bussola straordinaria che avrà il potere di orientarci nei marosi dell’esistenza con fermezza e certezza. Il mito ci parla dell’Uomo archetipico e ci suggerisce che l’essere umano è sempre lo stesso arcano racconto. Un esperto di miti, riferendosi ad essi, saprà sempre come comportarsi nella vita, adoperandosi nelle scelte giuste e nelle azioni migliori per sé e per gli altri. Non è un caso se del mito del vampiro se  ne è occupato sia Voltaire, tacciandolo come volgari dicerie messe in giro dai Gesuiti, sia Rousseau che sosteneva il principio per cui tutta l’umanità fosse fondata sullo sfruttamento ed il vampirismo e che, quindi, per ciascuno di noi  “il nostro Vampiro sono gli altri”.

Per parlare del mito del vampiro, prima dobbiamo stanarlo. Apriamo la caccia al resurgente, allora, forse riusciremo ad eliminare alcuni luoghi comuni sulla sua figura ed imparare una conoscenza preziosa ed illuminante.

Origini mitologiche del vampiro

La parola vampiro ha origine nell’Europa dell’est. L’etimologia più accreditata mette in relazione il verbo lituano wempti: “bere” con il sostantivo turco uber: “essere diabolico”. Ciò che ne esce fuori è, dunque, il concetto di “demone che beve”. Nel 1725, negli archivi parrocchiali di Barn in Moravia, incontriamo per la prima volta il termine scritto posto in relazione con la salma di un certo Andreas Berge. La sua salma non trovava pace poiché era vampertioneinfecta.

Il vampiro, come credenza popolare, nasce nell’area culturale slava. Nella zona europea baltico-balcanica si formano le leggende del bevitore di sangue che sono giunte fino a noi. Ciò è dovuto, con ogni probabilità, alla cultura religiosa pagana che i popoli di quell’area seguivano. Dobbiamo tenere presente che gli slavi baltici furono gli ultimi di quei popoli ad essere cristianizzati verso la fine del XII secolo e con la forza, per giunta. I loro riti pagani, che avevano radici molto profonde, furono celebrati per tanti anni ancora o di nascosto o unitamente ai riti cristiani. Essi comprendevano un tipico culto dei morti che concepiva la vita dell’aldilà quale risvolto negativo della vita condotta dai vivi. Come per molte religioni, era loro convinzione che i morti conducessero una vita quasi nelle stese condizioni dei vivi e perciò si lasciavano al loro fianco, nella tomba, cibo, suppellettili e qualsiasi altro oggetto che si pensava sarebbe potuto servire al trapassato. Gli Slavi pre-cristiani credevano che il defunto si separasse malvolentieri dai suoi parenti e amici, soprattutto se fosse morto di morte violenta o in giovane età. Ancora voglioso dei piaceri che la dipartita gli aveva tolto, gli Slavi temevano che il resurgente potesse  tornare a pretendere la sua parte con pericolo e terrore da parte dei vivi. Allora, per assicurarsi e tenere sotto controllo la pace dei cari estinti, praticavano il rito delle “esequie ripetute”. Ad intervalli regolari che potevano essere di tre, cinque o sette anni, le tombe venivano scoperte, le ossa trattate con unguenti speciali e riavvolte in sudari. Se il cadavere non si era decomposto e mostrava segni atipici di conservazione, lo si impalava o lo si bruciava. Nel suo straordinario e ormai introvabile libro Il Vampiro (1964), la bravissima Ornella Volta riesce a raccogliere circa cinquanta modi di chiamare il vampiro, catalogandoli per altrettante località in tutto il mondo. Abbiamo, allora, in Polonia l’Upir, nella piccola Russia il Mjertovjek, in Serbia e Montenegro il Vurdalak, in Macedonia il Vrukolak, in Albania  il Sampir, in Bulgaria il Norferat, in Boemia l’Ogoljen e in Prussia il Gierach etc.

Nonostante tutte queste differenti denominazioni, il Vampiro mantiene delle caratteristiche costanti che si riscontrano in ogni zona e cultura. Il volto è pallido e scavato, la capigliatura folta e il corpo peloso finanche sui palmi delle mani, gli occhi sono cerulei, le labbra tumide sotto le quali si nascondono canini da belva, le unghie lunghissime, le orecchie aguzze come i pipistrelli e l’alito è maleodorante, probabilmente a causa della decomposizione dei resti sanguigni nella sua bocca. È vulnerabile a  tre cose: all’aglio (noto dalla notte dei tempi come il miglior disinfettante intestinale e, quindi, ottimo rimedio per i malesseri dovuti a batteri e parassiti), ai raggi del sole (è un essere delle tenebre)  e ai simboli sacri (come tutti i demoni satanici). Alla maniera della quasi totalità degli animali che succhiano il sangue (zanzara, zecca, pipistrello messicano etc.), ha la proprietà di rendere analgesico il suo morso. Nell’aspirare il sangue, emette un suono particolare denominato poppysma dal vampirologo Pierre Thyraeus de Neuss nel suo scritto De terrificationibus nocturnis (Brema, 1700). Negli Epigrammi di Marziale (VII,18) il termine è l’onomatopea per il rumore che gli organi sessuali producono durante l’amplesso. Il suo morso può uccidere, ma il morto, poi, entra nello stesso stato crepuscolare del suo uccisore, divenendo vampiro a sua volta. Nell’Historia Rerum Anglicarum,  William di Newburgh (XII secolo d.C. circa) riporta che in Inghilterra venne riesumato e dato alle fiamme, con l’intento di renderlo innocuo, la salma di un vampiro. Nella Danica Historia, Saxo Grammaticus  (XIII secolo d.C.) riferisce che un morto assassinato fu ritenuto responsabile della peste che allora imperversava nel Paese perché fu visto andarsene in giro di notte nelle campagne. La salma venne riesumata e resa innocua con il taglio della testa ed il rogo. La peste, stando allo storico, terminò. Il XVII e XVIII secolo sono stati, senza dubbio, i periodi in cui abbiamo avuto il maggior numero di casi di vampirismo. Nel XIX secolo il fenomeno svanisce quasi del tutto probabilmente grazie al definitivo imporsi della ragione e della scienza sul pensiero magico e sulla superstizione. Solo nel 1824 il parlamento britannico abolì la legge che prevedeva di trafiggere con un paletto di legno i corpi dei morti suicidi e/o di quelli in odore di vampirismo. Una legge simile restò in vigore nello stato USA di Rhode Island fino ai primi del Novecento. Nello stesso Stato è stato registrato l’unico contagio di vampirismo documentato negli USA. H.P. Lovecraft si ispirò a questi fatti per scrivere nel 1924 The Shunned House (La casa sfuggita), forse uno dei suoi più famosi racconti dell’orrore. Il 10 giugno del 1909, il Neues Wiener Journal riporta che, in Transilvania, un castello fu dato alle fiamme dai contadini del luogo perché credevano che il padrone fosse un vampiro e che fosse il responsabile della strage di bambini nel villaggio attiguo. In pieno illuminismo, i reportage, i verbali, i trattati e i documenti sul vampirismo costituirono quel substrato di riferimento che permise ai romanzieri dell’Ottocento di estrarre il vampiro dalla sua dimensione locale e popolare per portarlo ad essere il personaggio delle loro fatiche letterarie. Non è strano che in piena epoca della Ragione prolifichino le leggende e i miti sugli esseri demoniaci. È come se la mente, ipercaricata da una visione razionale delle cose, tenti di recuperare la sua dimensione metafisica dell’Ombra attraverso le narrazioni di eventi e soggetti considerabili ai confini con la realtà. L’imperatrice Maria Teresa D’Austria nella sua illuminata concezione del potere rivolto a debellare nel suo Paese superstizione ed ignoranza, ordinò a Wabst, primo medico dell’Imperial Regio Esercito e a Gasser, professore di anatomia all’Università di Vienna, di chiarire perché i contadini dissotterrassero ed impalassero alcuni morti. Il risultato dell’ indagine fu la celeberrima relazione Remarques sur le vampyrisme (Rescritto sui Vampiri) del 1755 stilata da Gerard Van Swieten, archiatra di sua maestà l’Imperatrice. Nello scritto, colpisce il pensiero moderno e scientifico del medico che confuta punto per punto le superstizioni e le credenze rurali, sfatando anche l’impressionante stato di conservazione dei corpi attribuendoli alle proprietà chimico-fisiche della composizione dei terreni di sepoltura “(…) se la terra è di sua natura assai compatta, o s’indurisce dal freddo dopo la sepoltura, o che l’entrata dell’aria vien da qualche altro mezzo impedita, la corruzione non si forma, o almeno assai lentamente.”

Anche il clero dovette intervenire in materia poiché principale imputato, da parte degli illuministi, della diffusione della leggenda del vampiro. Infatti, molti preti di campagna, più ignoranti dei loro villici, erano tra i maggiori sostenitori della credenza che i trapassati potessero ritornare a vita attiva sotto l’influsso di potenze sataniche. D’altronde molti testi da loro tenuti in un certo conto li sostenevano a cominciare dal famigerato Malleus Maleficarum di Sprenger e Kramer (Norimberga, 1494) per passare attraverso la Demonomania di Jean Bodin (Parigi, 1580), le Disquisitionum Magicarum di Anton Martin Delrio (Lovanio, 1599), il CompendiumMaleficarum di Francesco Maria Giaccio (Milano, 1608) e tanti altri che sostenevano la credenza con riferimenti alle Sacre Scritture e alla patristica. Contro tale inclinazione del piccolo clero si erge la figura sapientissima ed intellettuale del Cardinale Prospero Lambertini, in seguito eletto papa col nome di  Benedetto XIV. Egli incitò a considerare le leggende sui resurgenti come dicerie popolari alimentate dall’ignoranza e dalla semplicità del basso clero. Se questa esortazione fu raccolta certamente dai più colti, tra i contadini dei borghi, invece, la convinzione restò più viva che mai tanto da arrivare a codificare un modo d’agire per fronteggiare e sradicare l’ipotizzato male dei resurgenti. Come puntualizza Augustin Dom Calmet nella sua Dissertation sur les Apparition des Esprit et sur les Vampire et Revenants (Parigi, 1746), l’accusa di vampirismo doveva essere portata davanti ad un magistrato che imbastiva il processo preliminare con l’intenzione di dimostrare senza ombra di dubbio che le salme dei defunti tornassero a mettere in pericolo le vite dei cittadini. Erano ascoltate le versioni dei parenti, dei compaesani e del prevosto sulle quali il magistrato stabiliva se procedere o non con l’istruttoria. In seguito, con la riesumazione della salma, se il cadavere presentava le caratteristiche di un corpo ancora vivo, il giudice emetteva la sentenza di morte definitiva da ottenersi per mezzo dell’infissione nel cuore di un paletto di legno di frassino, il taglio del capo e, eventualmente, della incinerazione col fuoco. (Pilo, G., Fusco, S., 1994).

Tutte queste testimonianze sono dovute solo a racconti tradizionali? Proiezioni psichiche atte ad esorcizzare la paura del ritorno dei morti? Esiste una dimensione storica del vampiro? E se sì, a quale personaggio si riferisce?

Origine storica del vampiro

Dracula è esistito per davvero. Si chiamava Vlad (probabile diminutivo di Vladislav) Basorab detto anche Tepes (pronuncia: tsep-pesh) l’Impalatore, nato nel 1431 nell’antica città fortificata di Schassburg (Sighisoara in romeno), circa cento chilometri a sud di Bistrita e ucciso in battaglia nel 1476, nei pressi di Bucarest. Il suo corpo fu sepolto nel monastero dell’isola di Snagov a circa trenta chilometri a nord della odierna capitale romena. Era, dunque, un nobile transilvano impegnato nella guerra contro l’avanzata turca in Europa. L’appellativo Dracula gli giunge dal padre, anche lui di nome Vlad,  che fu nominato membro dell’Ordine del Drago, Drakùl in transilvano, (una organizzazione semimonastica e paramilitare che lottava per l’eliminazione dei Turchi infedeli) da Sigismondo di Lussemburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, affinché gli diventasse un alleato più fidato nel combattere il dilagare in Europa dell’impero ottomano. Dracula è il patronimico di Drakùl e vuol dire figlio di Drakùl (figlio del “nobile” del Drago, per l’appunto). È principe della Valacchia dall’ottobre al novembre 1448, poi dal 1456 al 1462 e ancora dal novembre al dicembre 1476. Vlad Dracula, appena dodicenne, insieme con il fratello Radu sono presi prigionieri e tenuti in ostaggio dal sultano turco Murad II nel 1443, ma mentre lui cerca tenacemente di ritornare in patria e ci riesce nel 1448, il fratello si fa mussulmano e si adatta così bene che tarda a tornare in patria e a riprendere il suo posto. Anzi, rimane alleato dei turchi e si fa appoggiare nella conquista del titolo di Principe di Valacchia proprio contro il fratello Vlad. Durante il periodo di prigionia, durato cinque anni, Vlad Dracula impara la tecnica dell’impalazione. Fu una modalità di condanna a morte che usò molto sia per i suoi nemici interni, i nobili boiari o i sassoni transilvani intenti a tramare contro di lui, sia per gli stessi turchi ai quali non risparmiò questo tipo di esecuzione. In genere, legava le gambe del malcapitato ad un cavallo e lo impalava da dietro, ma lo faceva infilare anche dalla bocca a testa in giù o infilzandolo dall’ombelico o direttamente all’altezza del cuore, se era fortunato. Arrotondava la punta dei pali per rendere l’agonia più lenta e si godeva i tormenti delle sue vittime. Le aste più corte erano destinate ai plebei e le più alte ai nobili. La disposizione dei condannati al palo avveniva a cerchi concentrici intorno alle città, di modo che fossero ben visibili da ogni punto. Arrivò ad impalare fino ad oltre venticinquemila vittime in un colpo solo e, una volta, fu visto mangiare in una di queste foreste di agonizzanti ed inzuppare il pane nel sangue dei poveri giustiziati. Faceva anche squartare, tagliare a pezzi e cucinare, dandoli in pasto agli ignari alleati o parenti, i corpi dei cospiratori o dei traditori. (McNally, Florescu, 1994).

Vlad-Dracula ritorna in patria e, cresciuto, organizza una difesa strenua del suo territorio e della sua religione cristiana, passando per convenienza da quella ortodossa a quella cattolica. Nel 1458 sale al soglio pontificio Enea Silvio Piccolomini col nome di papa Pio II. Enea Silvio si accorge subito della tremenda minaccia turca rappresentata dal sultano Mehmed II e dalla sua voglia di espansione. Durante il concilio di Mantua  nel 1459 chiama a raccolta i suoi nobili per organizzare una crociata, ma nessuno fu in grado di rispondere all’appello poiché quasi tutti impegnati a contrastare le lotte intestine nei loro possedimenti. Dracula fu l’unico principe a rispondere celermente all’invito del papa. Nonostante la sproporzione di forze, Tepes combatté eroicamente applicando contro il nemico ottomano tutto ciò che aveva imparato nel periodo di prigionia turco. Fu forse il primo ad adoperare le armi batteriologice: incoraggiava tutti gli ammalati di peste bubbonica, di lebbra o di tubercolosi a vestirsi alla ottomana e a mischiarsi ai loro soldati. Se fossero riusciti a sopravvivere abbastanza dopo aver infettato i nemici, avrebbero avuto grandi ricompense materiali. La sua scaltrezza fu tale che  arrivò ad inviare ai soldati nemici, resi vulnerabili al richiamo dei sensi da mesi e mesi si astinenza, prostitute ammalate di gonorrea e di sifilide. In Romania è considerato un eroe nazionale e molto positivo e forse condivide con il Dracula letterario solo il fatto che a lui e ai suoi luoghi si ispirò in parte l’irlandese Bram Stoker quando abbozzò la piéce teatrale di Dracula per offrirla all’attore Henry Irving. L’attore non si fece convincere dall’offerta, così Stoker tramutò in romanzo epistolare la sua ispirazione, pubblicandolo nel 1897.

Origini letterarie del vampiro

Nella nostra cultura occidentale, uno dei più interessanti ed antichi scritti sul vampiro ce lo ha lasciato Filostrato (II secolo d.C.) con  Vita di Apollonio di Tiana . Apollonio era un neopitagorico vissuto nel I secolo avanti Cristo e divenne un personaggio mitico nei primi secoli dell’Impero romano. L’imperatrice Giulia Domna incarica Filostrato di eseguire una biografia del filosofo, probabilmente per contrastare la figura di Cristo e la sua avanzante presa sulla romanità. Nell’opera filostratea, Apollonio è descritto con accenti messianici e gli vengono attribuiti miracoli e portenti. In essa troviamo anche una narrazione che potremmo intitolare: “Apollonio di Tiana e la vampira”. La prima scoperta, dunque, è che il vampiro nasce femmina! Un giovane sportivo di venticinque anni, bello di spirito e di forme, Menippo di Licia, allievo del filosofo Demetrio di Corinto, mentre passava per la strada che mena a Cenchrae è circuito da una bellissima donna che gli rivela di amarlo da tanto tempo. La donna dice di essere fenicia e di vivere in un sobborgo di Corinto. Lo invita a casa sua promettendogli che avrebbe cantato per lui, gli avrebbe offerto un vino senza eguali, oro, argento e monili ricchissimi e che non avrebbe avuto rivali nella sua vita “(…) e vivremo insieme felici, io che sono bella, e tu che lo sei quanto me.”. Menippo si lascia abbindolare dalle promesse della fenicia, nonostante studiasse filosofia, poiché era soggiogato da Eros. Il giorno del matrimonio del giovane, Apollonio si presenta alle nozze e, con un discorso filosofico e logico, smaschera la donna facendola apparire per quello che è: “(…) una di quelle Empuse che il popolo chiama Lamie o Mormolyce. Anche i Vampiri sono attratti dal sesso: ma ancor più amano il sangue e la carne umana, e usano il sesso per intrappolare coloro che vogliono divorare.”.

Interrogando i commensali, chiede loro se conoscessero il giardino di Tantalo che esiste e non esiste al contempo.  Alla risposta affermativa degli invitati Apollonio afferma:” Lasciatemi dire, allora, che queste decorazioni sono simili a esso: sono solo l’apparenza insostanziale di una sostanza.”. Quante vite sono catturate dall’apparenza insostanziale di ciò che reputano sostanziale?

Dopo tale discorso, tutte le coppe che sembravano d’oro e i vasi che sembravano d’argento svanirono insieme con i coppieri, i cuochi e i servi. Apollonio insiste fino alla confessione della donna che afferma di essere una vampira e che si nutre di giovani parecchio belli e forti perché posseggono il sangue molto fresco. (Pilo, G., Fusco, S., 1994).

A parte una semplicistica interpretazione rispetto certa fobia per il piacere del godimento sessuale femminile che traspare dall’atteggiamento del narratore, e che è tipico delle società molto patriarcali e maschiliste, il racconto di Filostrato ci suggerisce che i rapporti fortemente regressivi (come in genere lo sono quelli passionali e carnali) che conducono ad un amore “uterinico” sono forieri di morte sia psicologica sia, spesso, anche fisica.

La convinzione atavica, tutta umana, che per i morti sia possibile, in alcuni specifici casi, proseguire nelle attività sessuali e nell’alimentazione (due simbologie molto attigue) si pone all’origine del mito del vampiro. Il sesso dei defunti, in molte culture, era considerato piuttosto intenso e, per evitare che essi tornassero ad esigerlo dai vivi li si dotava di una compagnìa emblematica ed in alcuni casi reale. È questo che ci spiega come mai il coniuge, in certe organizzazioni sociali, era sepolto vivo col morto. Nelle tombe dell’antico Egitto e della Mesopotamia famose restano le cosiddette “concubine di pietra”, statuine femminili con gli organi sessuali  e le caratteristiche corporee con funzione erotica marcate da una notevole rilevanza. J.O. Frazer (Londra, 1934), nel suo accattivante scritto The Fear of the Dead in Primitive Religions(La paura del morto nelle religioni primitive) evidenzia che il timore del ritorno di un morto insoddisfatto tra i vivi è diffuso in ogni società ed in ogni tempo fin dal Neolitico. Qui origina la credenza nei fantasmi ed in altre creature non più appartenenti alla realtà vivente. Infiniti erano i riti in molte culture per garantirsi il non ritorno del resurgente. Tra gli Shuswap della Colombia britannica vedovi  e vedove dovevano trascorrere  molti giorni isolati dalla comunità dormendo su scomodi letti di spine per disincentivare visite indesiderate del defunto. L’usanza di troncare la spina dorsale del morto prima del seppellimento per evitare il ritorno all’abbandonato letto matrimoniale apparteneva agli Herero dell’Africa sud-occidentale. I vedovi della Nuova Guinea si fornivano di un’accetta da guerra per difendersi dagli inviti della moglie deceduta. I Lucumoni etruschi muravano i defunti dietro una parete della loro casa adibita all’uso di poterli controllare. La praticità romana stabiliva un tempo di circa tre giorni l’anno da concedere ai morti nei quali essi potevano ritornare tranquillamente tra i vivi. In quelle ore i famigliari non potevano seguire alcun affare pubblico ed evitavano di uscire di casa. Allo scadere del periodo concesso, il Pater Familias, si gettava alla spalle una manciata di fave nere quale tributo “mangereccio” agli ospiti d’oltretomba e segnale inappellabile perché vi tornassero. Persiani, Medi, Parti e Iberni li facevano divorare alle belve, a tal scopo i Batriani avevano selezionato una razza di cani ferocissimi della quale andavano molto fieri. I nomadi Ciuvasci russi usavano inchiodare i morti nelle bare con ferri che trapassavano loro il cervello ed il cuore per evitare che li seguissero nei loro trasferimenti. Alcune tribù del corso superiore dell’Ogowe in Camerun esprimevano una drasticità totale: chiudevano il trapassato in un sacco di pelle conciata e lo riducevano ad una pappetta a furia di bastonate per poi lasciarlo sotto un albero nella foresta. Nonostante questi rituali, le leggende e le storie sul resurgente che torna a pretendere la sua imposta sono tantissime. La più famosa è la Fidanzata di Corinto narrata da Goethe e propostaci, in traduzione, magistralmente da Benedetto Croce. La fanciulla Filinnio, impedita dalla madre ad unirsi in vita col suo amore, torna da defunta a pretendere l’unione con l’amato. La connotazione vampirica è conferita da Goethe alla vergine, la quale esclama che, una volta trascorsa la vita del suo promesso sposo, dedicherà le sue attenzioni ad altri giovani ai quali succhierà il sangue. La storia della giovane Fillinnio fu narrata, quale testimone oculare, da Flegone, un liberto di Adriano, nel suo scritto Mirabilia. La vicenda è stata ripresa da molti altri autori, tra cui: Martin Lutero nei Discorsi a Tavola, da Delrio nelle Disquisitionum Magicarum e da Anatole France nelle Noces Corinthiennes. (Pilo, G., Fusco, S., 1994)

Ma torniamo al vampiro letterario. Abbiamo visto che inizialmente è donna. Nella cultura greco-latina le Lamie erano mostri che si nutrivano del sangue dei giovani vergini e delle carni dei cadaveri, erano seguaci di Ecate, dea della Morte e degli antichi riti lunari mediterranei.  Nell’antica Roma esisteva una casta sacerdotale che aveva il compito di contrastarle e lo Jus Pontificum vietava di lasciare i cadaveri alla mercè di Strygae e di Lamie. Lilith, secondo la tradizione rabbinica prima moglie di Adamo, per la disobbedienza a giacere sotto il marito nella posizione coitale cosiddetta pancia a pancia, fu condannata da Dio a trasformarsi in un demone e a vagare, unita ad altri suoi consimili ai quali diede origine, nel deserto. Lilith torna negli incubi degli uomini accucciandosi sul loro ventre, succhiando loro il sangue ed è sempre pronta a portarsi via i neonati ed i bambini per farci il suo nutrimento. È ancora femmina nei racconti Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu, anagramma di altri nomi quali Millarca e Mircalla Contessa di Karnstein, e in Un mistero della campagna romana di  Anne Crawford dove assume il nome di Vespertilia τής            αιματοπωτίδος (la bevitrice di sangue).

Il transito dalla figura femminile a quella maschile del vampiro lo dobbiamo a John William Polidori  il cui padre Gaetano era stato segretario di Vittorio Alfieri e una delle sorelle fu la madre del pittore Dante Gabriele Rossetti, uno dei maggiori fautori inglesi del movimento pittorico preraffaellita. Laureatosi in medicina a soli 19 anni sembrava destinato ad una grande carriera medico-letteraria. Incontrò, però, sul suo cammino il suo vampiro: Lord Gordon Byron, divenendogli una specie di confidente-segretario. Lo seguì con fedeltà negli spostamenti attraverso innumerevoli paesi europei e, quando Byron lo abbandonò, cadde in uno stato depressivo che lo portò ad una vita scellerata. Si suicidò nel 1821, a soli ventisei anni, per un debito di gioco che non riuscì ad onorare. Fu lui a scrivere il racconto The Vampyre(il Vampiro) al cui personaggio tutta la letteratura romantica dell’Ottocento si riferì quando ebbe a narrare della raccapricciante figura del Principe delle tenebre. Polidori riprese un abbozzo di racconto fatto dallo stesso Lord Byron durante il periodo vacanziero del giugno 1816 nella famosa villa Diodati, in Svizzera. Erano presenti con il Lord inglese anche la sua amante, Claire Clairmont, Percy Bisshe Shelley anche lui con la sua amante diciannovenne Mary Wollstonecraft Godwin, in seguito sua moglie, il letterato e uomo politico John Hobbhouse, il pittore Scrope Davis e lo statista italiano Pellegrino Rossi. Quell’estate fu fredda e piovosa e, poiché il gruppo d’amici era costretto a restare rinchiuso in casa, per vincere la noia Byron lanciò l’idea di scrivere ciascuno una storia di fantasmi. L’esortazione fu presa sul serio solo da due dei presenti. Mary, l’amante adolescente di Shelley, scrisse il famoso romanzo Frankenstein e John William, riprendendo un abbozzo di racconto lasciato in sospeso da Byron, creò la novella The Vampyre, probabilmente con l’intento di denigrare la figura di Byron col quale era entrato in forte contrasto. Sebbene dopo The Vampyre siano stati scritti numerosi racconti e romanzi  del vampiro al femminile, l’opera del Polidori, in poco più di venti pagine, consegna definitivamente il vampiro alla figura prestigiosa e poderosa che conosciamo donandogli la forza di un archetipo. Da zotico contadino, rozzo azzannatore di bestiame e famigliari prossimi, parto di superstizioni nate nella working class agricola, il vampiro transita alla nobiltà di Lord Ruthven, aristocratico inglese condannato dai suoi infami peccati a suggere il sangue dei vivi. Cambia aspetto, quindi, il succhiasangue e non è più un creatura orrenda, uno zombie mosso da una bagliore di vita infernale, ma un uomo bello d’aspetto, colto e colmo di uno charmetravolgente che attira a sé, come una calamita il ferro, soprattutto leggiadre, giovani donne. Lord Ruthven è accolto nei migliori salotti della upper class del suo tempo. Questo clichè informerà tutte le successive descrizioni letterarie del vampiro, maschio o femmina che sia. Da ora in poi, il vampiro diventa il padrone assoluto del mistero della continuità dell’esistenza oltre la morte, condannato ad uno sdoppiamento continuo che lo  porta ogni notte a risorgere dal suo feretro, collocato nella blasonata tomba di famiglia, per farvi ritorno al primo accenno dell’alba.

La stretta corrispondenza “erotica” vampiro-vittima è narrata con grande maestria dall’irlandese Bram Stoker nel suo romanzo Dracula. In effetti, Stoker stesso ci lascia scritto, nei suoi appunti conservati nella Rosenbach Library di Philadelphia, che l’idea per il romanzo gli giunse da un incubo erotico. Era una notte del marzo del 1890 e Bram, appena sveglio, segna di corsa queste righe:

Un giovane esce, e vede tre fanciulle.

Una di loro cerca di baciarlo, non sulle labbra ma sulla gola.

Il vecchio Conte interviene.

Con rabbia e furia diaboliche.

“Quest’uomo mi appartiene. Io lo voglio”.

Il lettore attento riconoscerà la scena nel terzo capitolo del libro. Ma ciò che rende il personaggio Dracula così attraente è la sua potenza simbolica tanto forte da catturare perfino le allucinazioni dei folli. Infatti, è probabilmente il solo personaggio letterario (gli altri sono storici: Napoleone, Hitler, Einstein etc.) col quale si identificano gli psicotici. (Pilo, G., Fusco, S., 1994).

La sua sessualità è oscura e ambivalente, completamente “polimorfa e perversa”. Altalenante tra la sua origine indistintamente medievale e la descrizione scientifica, positivistica degli accadimenti, Dracula assume su di sé la simbologia di colui il quale sovverte l’ordine naturale delle cose. Otto anni dopo la pubblicazione del romanzo di Stoker, con i famosi tre saggi sulla sessualità infantile Sigmund Freud attribuirà le stesse caratteristiche erotiche al bambino. Il vampiro di Stoker è una figura-simbolo liberatoria rispetto all’erotismo vittoriano dell’epoca represso e mascherato. Dracula è l’espressione più proibita della sessualità perché porta alla perdita non solo della innocenza, ma anche della propria anima. Chi si unisce col vampiro vede svanire la propria individualità perché entra in una dimensione dove l’Io non è più così definito: l’appartenenza non è certa e si pone in una specie di zona franca tra la vita e la morte. Dracula è un non-vivo, ma anche un non-morto che riassume su di sé molte caratteristiche infantili: l’onnipotenza, la voglia di fusionalità con l’altro fino a farne psichicamente una sua replica, l’intransigenza, il narcisismo, l’autoreferenza. Il suo eros disordinato è anche sovversivo: la scena in cui tenta di suggere il sangue dell’avvocato Jonathan Harker quando questi si taglia sbadatamente il viso in sua presenza è fin troppo esplicita. Dalle note dell’Autore sappiamo che, nella sua versione originale, la scena prevedeva da parte di Harker il taglio accidentale di un dito e che Dracula glielo succhiasse avidamente. La metafora deve essere apparsa a Stoker troppo esplicita per la società vittoriana dell’epoca tanto da indurlo a modificarla in una più accettabile. Anche il suo rabbioso ribadire alle tre sorelle vampire il possesso di Harker conduce ad una illazione omosessuale. La novità è contenuta, però, nel fatto che Stoker, pur connotandone la soprannaturalità ed il satanismo, conferisce al personaggio Dracula una sua razionalità e una sua logica d’azione. Il conte è una persona tra le persone, si muove e agisce, da un certo punto in poi del romanzo, in una Londra che non lo contrasta, a parte i suoi inseguitori, e gli convive al fianco. Personificazione della forze primordiali e belluine, aspetto Ombra complementare al lato più illuminato della ragione, Dracula è sempre pronto a manifestasi, con l’oscurità e con l’incubo, provocando cedimenti e falle nelle difese razionali dell’Io. La fortissima fascinazione per il pericolo che ne deriva si pone alla base dell’enorme successo che il romanzo ha avuto. Dracula ci chiama ad abbandonare le sicurezze del nostro materialismo positivistico e ci sfida a confrontarci con la potenza del magma inconscio dove sono abbattuti i confini tra la comune sessualità perbenista e quella atipica ed indifferenziata del suo stato crepuscolare, tra la morte e la vita dove si può consumare un abuso totale contro gli ordinamenti stessi della Natura.

Stoker in un primo momento aveva intitolato il romanzo The Un-dead (Il non morto) e rimase quello fino alla stipula del contratto con la casa editrice Archibald Constable & Company. Il libro era già in bozze ed incolonnato quando Bram lo cambiò in Dracula. Il suggerimento gli arrivò da un professore di Tradizioni slave all’Università di Budapest, un certo Arminius Vambery che gli parlò del principe di Valacchia e Transilvania Vlad Basorab detto Tepes, l’impalatore, sanguinario condottiero cristiano strenuo avversario dell’avanzata turca in Europa. Costui fu soprannominato anche Dracula, cioè figlio di Dracùl, appellativo che aveva ricevuto il padre poiché entrato a far parte dell’Ordine cavalleresco del Drago. (Giovannini, F. 1985).

Stoker continua la sua ricerca sul personaggio Vlad Tepes e studia sui documenti conservati al British Museum. Legge di sicuro il trattato di Dom Calmet, da dove trae la nozione del potere dell’aglio sui vampiri ed anche un articolo di Emily de Laskowska Gerard apparso nel 1885 sulla rivista londinese “The Nineteenth Century” (sulla quale anche Stoker pubblicò alcuni suoi scritti) con il titolo Superstizioni transilvane. A lei dobbiamo se Stoker decide di cambiare i luoghi dell’ambientazione del romanzo dalla Styria (dove Le Fanu ambientò Carmilla) alla Transilvania, poiché la stessa Autrice pubblica nel 1888 il libro  Land beyond the forest (La terra al di là della foresta) dove analizza molte superstizioni romene. L’opera della Gerard è studiata dallo scrittore irlandese e gli fornisce molte indicazioni oltre che spunti per il suo Dracula. (McNally, Florescu, 1994).

Stanato il principe delle tenebre, alfine, possiamo avviarci ad una interpretazione più psicologica e profonda del suo mito.

Dracula in chiave psicoanalitica

La dimensione mitica del vampiro è data dalla sua più grande proprietà, quella della capacità di mediazione tra la vita e la morte. Supposto depositario dell’arcano circa la continuità dell’esistenza oltre la morte, in realtà è un essere  condannato a non poter vivere né a poter morire.  Questo suo stato lo dispone ad uno sdoppiamento continuo collegato all’avvicendarsi del giorno e della notte. Come ogni essere infernale, Dracula può svanire alla luce del sole. La sua peculiarità “perturbante” è quella di nutrirsi del sangue dei vivi.  È un ladro di energia e i suoi “furti di sangue” avvengono per mezzo di un morso diretto, in genere, alla gola. Tutti sappiamo che in medicina il sangue è considerato un tessuto piuttosto che un liquido poiché le sue componenti sono così cariche di sostanze e gli conferiscono un così tale spessore che non si può considerarlo altrimenti. Una sua seconda caratteristica perturbante è che il suo corpo non proietta l’ombra, poiché è egli stesso l’Ombra, e la sua immagine non è riflessa da alcuno specchio perché il suo soma non ha contorni definiti: egli è e non è allo stesso tempo. Chi non possiede l’ombra ha gravi problemi e grandi difficoltà ad esistere così come ci ricorda Von Chamisso con il suo romanzo Peter Schlemihl (1814), storia di un uomo che vende la sua ombra al diavolo, o lo stesso James Barrie con  Peter Pan (1906) che si affanna a ritrovare ed a riattaccare a sé l’ombra. Sarà la materna Wendy a ricucirgliela al corpo, simbolo di un femminile accogliente e definente. Anche Robert Louis Stevenson con  Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mister Hyde (1886), molto più metaforicamente ci avverte che l’Ombra deve restare al posto suo e che soprattutto non va autonomizzata. Lo sforzo di ogni essere umano è quello di integrare la sua Ombra, in quanto parti di sé che l’individuo non vuole vedere e con le quali non riesce ad entrare in contatto: il lato oscuro della propria psiche. Nel caso tale integrazione non riuscisse si correrebbe il pericolo di essere fagocitati da essa o quanto meno di perdere la propria dimensione di definizione e quindi di esistenza autonoma. Il vampiro, infatti, non può esistere autonomamente, ha bisogno continuo della sua vittima sia per sottrargli l’energia attraverso il pasto del sangue (in quanto tessuto, parte tangibile del corpo) sia per potersi definire attraverso il rispecchiamento in essa. Ogni vittima del vampiro diventa come lui “a sua immagine e somiglianza”. Il vampiro col suo morso interrompe il processo di individuazione della sua vittima, lo strappa al divenire se stesso per condurlo alla dimensione della sospensione, del non divenire, di una omologazione di dannazione che spersonalizza e rende evanescenti. Il sole che segna con precisione, per mezzo della sua luce, i corpi è suo acerrimo nemico. Il sole e la luce sono simboli apollinei, espressioni mitiche della ragione, della morale e della coscienza, il vampiro è attivatore dell’inconscio, dell’istinto e dell’irrazionalità. Dove ci sono sole e luce si vede bene e si ha più cognizione delle cose, sono la notte ed il buio a sfumare i contorni a non permettere la visione nitida degli oggetti e delle persone. La luce è l’Io, dove c’è l’Io c’è ragione e l’inconscio è tenuto sotto controllo. There is no darkness but ignonorance, non c’è oscurità fuorché l’ignoranza, asseriva Shakespeare e una spiegazione evemeristica, per cui gli esseri umani diventano miti, potrebbe passare attraverso una interpretazione scientifica della superstizione vampirica. La Porfiria è una malattia del sangue ereditaria che oltre a modificare il volto, le unghie e i denti rende molto sensibile il corpo alla luce. Ciò potrebbe aver spinto in passato chi ne soffriva ad uscire solo col calar del sole e a tentare come terapia una serie costante di emotrasfusioni. La sua ereditarietà spiegherebbe, inoltre, la diceria che il vampiro attacca preferibilmente i famigliari.

A parte uno scritto di Ernest Jones Psicoanalisi dell’incubo (1951) e alcuni articoli di Marie Bonaparte, la psicoanalisi ufficiale non sembra essersi occupata molto di questo argomento. “A. Green (1972) rammenta come il vampirismo si riconduca alla relazione madre-bambino, o meglio madre-feto, tra i quali passa un legame corporeo basato proprio su un inin­terrotto scambio di sangue attraverso il cordone ombelicale.” Carotenuto, A. (1997).

Il vampiro non va d’accordo con i simboli fallici, non sopporta la vista della croce, ad esempio, simbolo fallico per eccellenza. Anche al di là del significato religioso, Dracula, che è sicuramente un materialista esaltatore dei piaceri della carne (si nutre del sangue di giovani e leggiadre fanciulle), atterrisce e arretra davanti a quello strumento di tortura. Jones, nel suo citato saggio sull’incubo, afferma che la croce è l’esposizione di Jesù (il figlio) contro Satana. Nell’inconscio, questo si collegherebbe alla sfida esibizionistica del bambino di fronte all’auctoritas paterna. Il resurgente è la personificazione mitica del desiderio umano di sconfiggere la morte. Acquisisce così la forza di un archetipo ed è per questo che le leggende e i racconti che lo riguardano non cessano d’interessare. Dracula, però, paga un prezzo altissimo alla sua immortalità: la depressione. Il succhiasangue è un depresso. Così si rivolge Nosferatu-Dracula ad Hutter-Harker nel film di Herzog:

“Io adoro solo l’oscurità e le ombre, dove posso essere solo con i miei pensieri. (…) Il tempo è un abisso, profondo come lunghe e infinite notti, i secoli vengono e vanno. Non avere la capacità d’invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce ad immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno  le stesse futili cose.”.

La depressione è vivere senza sentirsi vivi. È uno stato continuo di veglia in una notte senza fine. Le caratteristiche psichiche di Dracula, le sue consuetudini, i suoi sentimenti sono tipici della personalità depressiva. Per combatterla, al posto dell’aglio e dei simboli religiosi, lo psicoterapeuta usa la sua anima come specchio che aiuti a riflettere solo l’Ombra del paziente depresso e non il suo apparente aspetto. Il vampiro è depresso perché conscio di una perdita per elaborare la quale ha in corso un lutto senza fine. Questa perdita è l’amore oggettuale. Immerso irrimediabilmente nel suo narcisismo cosmico, il principe delle tenebre non riesce ad amare e a farsi amare. È solo in grado di sedurre perché svia la sua vittima in un altrove che è già ospite della sua stessa mente. Se non riesce a sedurre, inganna, violenta e si appropria di qualcosa che non gli appartiene: la sua vittima, che lo può seguire solo quando diventa suo simile, come lui condannato ad un’altra dimensione narcisistica senza fine. La regressione che si crea nella diade vampio-vampirizzato ci rinvia alla coppia onnipotente madre-bambino dove la fusionalità è completa. L’onnipotenza di questo rapporto è pagata a caro prezzo, però, perché l’altro non è distinguibile per cui la separazione è impossibile e, quindi, la perdita dell’autonomia e la schiavitù sono la condanna da scontare. La fusione nell’unità primaria annulla l’individualità ed è perciò che il vampiro non si riflette allo specchio. Egli non è morto e non è vivo, esiste in quel suo stato crepuscolare che annulla i confini dell’Io. Risorge, ma non rinasce, si sforza di esistere, ma può soltanto allestire un simulacro d’esistenza attraverso la vittimizzazione di qualcun altro e per un breve periodo. Sappiamo che per nascere la seconda volta, come direbbe Margaret Mahler, cioè psichicamente, abbiamo bisogno di rispecchiarci nello sguardo riflettente di nostra madre che funge da specchio. Sarà questo rispecchiarsi a offrirci “(…) una prima unificazione e coordinazione delle funzioni psichiche e corporee del bambino, a conferirgli un iniziale sentimento di continuità e di identità.” (Carotenuto, A. 1997). Il primo momento della costituzione dell’Io è, secondo lo psicanalista parigino Jaques Lacan, la fase dello specchio nella quale l’Io si definisce attraverso l’identificazione con l’immagine dell’altro (la madre). Lo specchio documenta la separazione che esiste tra me e un altro da me. Il riflesso primario ci dona la possibilità di vederci e di renderci visibili a noi stessi e ci introduce nel mondo della differenziazione. Il vampiro, quale essere indifferenziato, non può specchiarsi poiché appartiene ad un tempo di non-vita e di non-morte, un tempo senza fine né inizio in accordo col suo essere-non essere.

Nel ritorno all’indifferenziazione primaria, dove c’è lo scambio di sangue tra madre e feto attraverso il cordone ombelicale a garantire il nutrimento, non v’è possibilità di sviluppo e crescita. La fase uroborica madre-bambino/a va superata, l’indifferenziazione primaria deve lasciare luogo alla differenziazione, alla separazione, alla nascita del sé, pena ne sia la nostra stessa incolumità. La Natura, nella sua santità, prevede che, una volta giunto il tempo, trascorsi nove mesi, la madre ed il feto devono separarsi ed ella deve recidere il cordone ombelicale se ci tiene alla sua vita ed a quella del neonato. Se si regredisce stabilmente fino all’utero, fino a nutrirsi come un feto del sangue dell’altro, il destino che ci attende è quello legato alla rinuncia al mondo, a Cronos: il tempo, ed alle sue relazioni. Realizzare uno scambio del genere significa condannarsi ad uno stato di tempo-non-tempo: il tempo uterinico della chiusura. Tempo-non-tempo nel quale, infatti, il vampiro è condannato ad esistere. È vitale uscire dallo stretto legame con l’altro che scambia “il sangue” con noi, perché il precipitare nel mondo prevede l’abbandono ed il distacco dal proprio narcisismo primario affinché la nostra storia di individuazione possa cominciare. Questo ci insegna il mito del vampiro. Quante vite si sono arenate sull’illusione della riedizione permanente del rapporto primario? L’innamoramento è la metafora esistenziale, la rappresentazione psicologica rinnovata in continuazione del desiderio del rapporto dove non esisteva la contraddizione, la sofferenza, l’ombra e la morte. La vita, invece, ci istruisce – volenti o nolenti – alla realtà della separazione e della solitudine. Gli innamoramenti finiscono tutti presto o tardi, questo è un bene, come abbiamo avuto modo di capire, ed è ancora meglio se da essi si riesce a procedere verso la relazione, altra forma d’amore non meno potente ed importante. Ma per far sì che la relazione si realizzi l’Io ha bisogno di staccarsi e di differenziarsi: la realtà della relazione è composta dal due e non dall’uno come nell’innamoramento. Nella relazione, la fusionalità si ridimensiona a favore della differenziazione e del riconoscimento del Tu. L’altro non è più il mio stesso sangue, è un sangue diverso che, però, si integra bene col mio. Tornare alla fusione è nocivo. Altrettanto danno – ovviamente – può procurare la fusione che torna da noi (il vampiro-amante che non vuole l’apertura alla realtà oggettiva) per rimpossessarsi della nostra individualità: sarebbe la morte dell’Io. Il timore ancestrale che il trapassato, ciò che è stato l’essere nell’indifferenziazione preuterinica, cioè il non Io, possa tornare di nuovo, quello che Freud in Aldilà del principio di piacere (1920) aveva teorizzato come disposizione fondamen­tale di ogni organismo verso uno stato di inorganicità, è una delle paure più profonde dell’essere umano ed è una delle fascinazioni più forti del fantastico e della sua letteratura.

La tematica del vampiro favorisce il riavverto di un pensiero primordiale dove è permessa l’invasione del caos ed il miscuglio delle cose. L’ordine morale cristiano e illuminista si spacca e cede il passo al “disordine” della Natura al cospetto della cui regola ogni pretesa culturale umana sembra mostrare il suo limite ed ogni tentativo di dialogo la sua presunzione. Ma non sarà così in via definitiva. Il gioco dell’alternarsi tra irruzione dell’inconscio e predominio dell’Io continuerà ad “appassionarci” e riusciremo sempre a ricondurre Dracula al suo mondo vespertino dal quale, però, egli ci chiamerà. Come il capitano Acab, ormai avvinghiato alla sua fatale balena bianca, ci esorta a seguirlo col gesto ultraterreno del suo braccio, così il conte Dracula ci invita a congiungerci a lui. Il relief , quindi, non potrà che essere momentaneo. La potenza archetipica del mito del resurgente non ci libererà mai del tutto dalla sua presenza e continuerà ciclicamente a tormentarci. Riapparirà nelle pieghe delle nostre fantasie più inconfessabili per ricordarci che ormai l’Abisso che è in noi ci si è spalancato davanti e che non possiamo più evitare di scandagliarlo. Ci avvicineremo, allora, ancora ed ancora, con timore e brivido, pronti a fuggire eccitati ed inorriditi, per godere, durante la corsa, del fascino della vertigine che il suo richiamo esercita, aggrappati con smarrimento e curiosità al bordo della nostra coscienza, dall’alto della soglia proibita.

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