Originale col ciummo
Ai miei amatissimi parenti baresi.
Il rumoroso motociclo ebbe appena il tempo di scansare il vecchio che col bastone si aiutava, sulle strisce pedonali, ad attraversare la strada.
- Stu vecch strunz, stattn a casa! –
Vito ebbe un sussulto di spavento e scivolò lungo l’elegante legno col manico argentato a forma di testa di cane, accasciandosi lentamente per terra.
- L murt ca tnit! – Urlò loro appresso un giovanotto intervenuto a soccorrerlo insieme con altra gente.
- Comandante, tutto bene? – gli chiese Mimmo aiutandolo a rialzarsi. Vito, come forma di rispetto era chiamato così dai conoscenti del quartiere, anche se non era affatto un “Comandante”. Non lo era mai stato. Nella sua lunga carriera in Marina Militare, tuttavia, aveva raggiunto infine il grado di capo cannoniere di prima classe.
- Sì, sì, caro. Tutto bene. Non mi sono fatto nulla. Non ti preoccupare, vai pure. –
Alcune ragazze lo stavano osservando. Era vestito con cura, ma aveva il volto sfigurato, come da un’ustione profonda. Quando si rialzò, si stirò un poco per riprendersi la dignità. Nonostante i suoi 85 anni, era ancora alto ed energico, eccezion fatta per una accentuata zoppia alla gamba destra. Si spazzolò con le mani la giacca e i pantaloni alla meno peggio e provò a porre qualche passo verso la sua meta: la rosticceria Lo Russo dove, secondo lui, arrostivano i più buoni polli di tutta Bari. Traballò sulle malferme gambe, ma conquistò subito il suo equilibrio. Mimmo lo conosceva e sapeva chi era. Ebbene, tutti lo chiamavano Comandante. Ad ogni buon conto, durante l’ultimo conflitto mondiale in Marina Militare, ricopriva il grado di sottocapo e, specificatamente, sottocapo cannoniere.
- Comandante, insisto, si appoggi a me. L’accompagno io. Mi conceda questo onore. –
Vito sorrise, col sorriso dell’anziano che ne aveva viste tante, ma restò anche piuttosto sorpreso dalla premura di quel giovanotto in jeans e maglietta. Ormai i tempi erano completamente cambiati e, seppure si fosse in pace da tanto tempo, un altro tipo di guerra si sarebbe dovuta combattere secondo lui: quella contro la maleducazione e l’inciviltà programmate che avevano fatto strage specialmente tra le giovani generazioni.
- Comandante, sono Mimmo, Mimmo Lo Cascio, il nipote di Ada Nigro. –
Il capo cannoniere Vito Daddario, si fermò ad osservarlo con più attenzione e gli occhi cominciarono ad inumidirglisi.
- Mimmo, Mimmo, il nipote di Ada? –
- Precisamente. Agli ordini Capo! –
Mimmo, si rizzò tutto e, battendo i tacchi giocosamente, portò la mano tesa alla fronte come per fare il saluto alla maniera militare.
- Che piacere, caro, e tua nonna come sta? –
- Nonna se n’è andata una settimana fa, purtroppo. –
Non poteva trattenersi, ora, e lo sguardo del vecchio s’impietrì.
- Com’è stato? –
- Ha avuto un ictus. Sa Comandante, l’età…la grande fatica a tirar su la famiglia. –
- Capisco. Il vecchio annuì –
Ma Vito più che capire ricordava. Era il 2 dicembre del 1943. Dopo l’8 settembre le forze armate d’Italia erano disorientate. Alcuni militari si diedero per dispersi e s’imboscarono in attesa di eventi più chiari. La maggior parte, però, rispettarono i nuovi patti badogliani e affiancarono gli Alleati nella lotta contro le forze naziste. Lui e Michele erano appena ventenni, nel pieno di quel ciclone storico denso di eventi non capivano molto, ma amavano, oltre la stessa città, la stessa donna: Ada. Una bellezza moresca da lasciare senza fiato. Gli uomini le ronzavano intorno come le mosche sul miele. Prima i Tedeschi, poi gli Americani, ma lei, colma della cultura del sud, non dava confidenza a nessuno, seppur le piaceva stuzzicare gli uomini e tenerli al guinzaglio come dei cagnolini ubbidienti.
Michele era un bel ragazzo e Ada propendeva per lui. Anche Vito era bello, di quella bellezza greca policletea, ma non ne era cosciente. Soffriva molto perché amava Ada con tutta l’anima, ma bisognava accettare la realtà e farsene una ragione. Ada gli preferiva Michele che, tra l’altro era un suo amico sincero. Vito, diplomato all’istituto tecnico industriale, arruolatosi in Marina, raggiunse presto il grado di sottocapo per ripetuti meriti al valore. Michele, che non era diplomato, entrò anche lui in Marina, ma senza gradi: comune di seconda. Dopo l’8 settembre, la situazione italiana era critica e la gente provava a vivere con espedienti: chi ritirandosi in casa quanto più possibile, chi spostandosi fuori dalle grandi città nei paesini e nelle case di campagna, chi aggirandosi per i quartieri in cerca di qualcosa che permettesse di sopravvivere.
La Fifteenth Air Force, appena costituita al comando del maggior generale James H. Doolittle, detto Jimmy, della USAF, s’insediò in Bari il 1° dicembre del 1943. Il generale, da bravo californiano, scelse un distinto palazzo del 1935, progettato in stile razionalista dall’architetto Saverio Dioguardi. L’edificio, fronte mare, nel quale prima operava il comando della IV zona aerea territoriale della Regia aeronautica italiana, aveva l’ingresso al civico 35 del lungomare Nazario Sauro. Ormai l’invasione alleata della penisola italica era cominciata e l’autorità in capo diede la precedenza a Bari e soprattutto a Foggia, rispetto all’altro versate salernitano, giudicandoli due punti strategici da cui far partire i rifornimenti alla 15a e le missioni aeree contro il Reich nazista. Le incursioni con i bombardieri sulle fabbriche, sulle raffinerie, sugli aeroporti e i centri nevralgici tedeschi, in precedenza partivano dalle coste sud della Gran Bretagna. Con la conquista della Puglia, specialmente di Bari per gli approvvigionamenti e di Foggia nei cui pressi era prevista la costruzione di almeno dieci aeroporti, l’aviazione alleata avrebbe avuto gioco più facile nel bombardare il territorio germanico. Tutto ciò sia per la minore distanza da coprire sia per le condizioni climatiche al decollo, decisamente più favorevoli in quella terra molto più a sud.
Il pomeriggio del 2 dicembre, Vito se lo ricordava benissimo. Stava camminando di buona lena verso palazzo Dioguardi perché il maresciallo dell’aria Sir Arthur Coningham, comandante della Northwest African Tactical Air Force, di lì a pochi minuti, avrebbe tenuto una conferenza stampa e lui aveva ricevuto il permesso di parteciparvi come ordinanza dell’ammiraglio Ruffo. Nella stessa costruzione, dal 2 dicembre 1943, fu allocata l’unità aerea italiana costituitasi a Brindisi poco dopo l’8 settembre per unirsi agli alleati nella Balkan Air Force e condurre, insieme con loro, azioni sulla Puglia, il Molise, nei cieli dei Balcani e in quelli rumeni.
Il sottocapo cannoniere Vito Daddario, in servizio sull’incrociatore ausiliario Barletta alla fonda nel porto, con l’aeronautica c’entrava poco, ma Bari era una città portuale molto rilevante per le strategie alleate e anche elementi della Marina Militare italiana, ormai equiparati ad altre forze coalizzate come quelle Polacche, Norvegesi e Canadesi, potevano prendere parte alla concertazione per la difesa dell’importante scalo marittimo.
Vito incontrò Michele poco prima di entrare nel palazzo dell’aeronautica e si scambiarono quattro parole.
- Vito, ti aspetto fuori, riportami cosa ha detto Coningham, voglio sapere pe favour. –
- Va buo’. Ci vediamo tra un po’. Tanto queste conferenze non durano mai a lungo. –
Michele lo vide entrare nell’ ampio ingresso turrito col suo accentuato passo marziale. Dopo un periodo di tempo che a Michele sembrò un’eternità, Vito uscì da dove era entrato.
- Allora Vito? Che ti è sembrato? Lo sai che dipendiamo ormai dalle impostazioni strategiche degli Anglo Americani. –
- A me questo australiano non mi convince proprio, sarà pure naturalizzato britannico, sarà pure un decorato e insignito, ma per me resta un “maori”, come lo definiscono i suoi stessi commilitoni, un pesce fuor d’acqua in questa zona. Dell’importanza della difesa di Bari non ha capito una mazza. – Vito fece una smorfia che denunciava poca certezza e disapprovazione. Sir Arthur Coningham, in effetti, seppur nato a Brisbane in Australia, aveva prestato servizio con le forze armate neozelandesi durante la Prima guerra mondiale e anche nella Seconda guerra mondiale era arruolato nell’armata neozelandese. Nel primo periodo era a Gallipoli, con la New Zeland Expeditionary force. Dismesso dal servizio attivo per problemi medici, raggiunse la Gran Bretagna a proprie spese e si arruolò nel Royal Flying Corps, dove divenne un asso dell’aria e fu pluridecorato per azioni coraggiose e determinanti. Il suo soprannome era, stranamente, Mary. Con ogni probabilità dovuto alla corruzione dell’aggettivo maori, per la sua lunga militanza presso i “Maori” neozelandesi. Vito questo sapeva e perciò lo qualificò così, anche se sarebbe stato più corretto, in quel senso denigratorio che aveva intenzione di conferirgli, denominarlo Aborigeno.
In effetti, per Vito e non solo per lui, il discorso del maresciallo dell’aria Sir Coningham fu deludente e peccava di presunzione e troppa sicurezza nelle proprie opinioni. L’alto ufficiale della RAF, nella sua elegante divisa britannica, rispose alle domande dei reporters ed illustrò le sue teorie. L’aviazione delle forze coalizzate ormai aveva il controllo completo degli spazi aerei italiani. Riportò che i bombardieri tedeschi a lunga percorrenza, dalla metà di ottobre in avanti, avevano effettuato solamente otto raid in Italia. Quattro di queste azioni furono condotte su Napoli da poco, nel mese di novembre. Dalle informazioni ormai acclarate, e a conoscenza di tutti, la quasi totalità degli aerei della Luftwaffe erano stati richiamati in Germania per la difesa del Terzo Reich. Contemporaneamente, la forza aerea alleata, con i suoi bombardieri, aveva aumentato le missioni sui bersagli nazisti, prendendo di mira soprattutto gli aeroporti. Un periodo di immane pressione bellica che gli Alleati, come sfottò verso i Crucchi, chiamavano “I giorni della festa del Reich”. Arthur Coningham era convinto che i Tedeschi avessero perduto la supremazia aerea in Italia.
- Miche’ vuoi sapere cosa ha affermato in tutta tranquillità? Il traduttore ha detto: “Io lo considererei come un insulto personale se il nemico tentasse qualche azione significativa in quest’area”. –
- Secondo te possiamo stare tranquilli? Mah, sciamaninn a cas. – Michele, alzando le sopracciglia, fisso negli occhi Vito il quale rispose: “E Sciamaninn, sciam.” –
In prossimità di casa, Michele e Vito abitavano in via Calefati uno accanto all’altro, incontrarono Ada. Anche lei viveva con i genitori qualche civico prima. Li osservò arrivare ed ebbe un moto di commozione: quei due sembravano Gianni e Pinotto. Tutti e due imbarcati sul Barletta, quel giorno erano in libera uscita sia perché baresi sia perché il livello di guardia non era alto. Due bei ragazzi, Michele un anno più giovane, e lei non riusciva a decidere definitivamente chi scegliere. Il suo affetto si stava dirigendo su Michele, forse perché più ingenuo, forse perché meno imperioso e a lei gli uomini troppo decisionisti non piacevano, le bastava suo padre. Vito aveva, secondo lei, un animo più “cattivo”. Sentiva che non ci sarebbe andata d’accordo e, a quei tempi, scegliere bene il compagno di vita risultava fondamentale. Una volta sposati era fatta. Non c’era più altra possibilità.
Vito, in realtà, non era cattivo. Era soltanto un animo impetuoso, sanguigno e agiva spesso d’impulso mettendosi, in qualche frangente, in serio pericolo. Per carità, riusciva sempre a cavarsela, era la sua caratteristica principale, ma Ada non vedeva in lui il tipo del marito che stava sognando. Michele era più “tenero”, più gentile e stava vincendo, senza troppo rendersene conto, la corsa alla conquista della bella e dolce fanciulla. In effetti, Ada era appena una fanciulla con i suoi diciotto anni.
- Trasite, trasite. – La signora Nigro, mamma di Ada, fece gli onori di casa ai due militari, con gesti ampi, asciugandosi le mani sulla parannanza.
- Signora, non vogliamo disturbare. Dissero quasi all’unisono Gianni e Pinotto. –
- Ma quale disturbo, non lo dite nemmeno. – La gentilezza barese, quella che derivava dalla cultura greca dove l’ospite è sacro, s’impose come sempre e la signora Nigro procurò spazio sul tavolo appoggiandovi sopra in men che meno una bottiglia di vino rosso e due bicchieri.
- Che dite? Lo mettiamo al forno un bel polletto “originale col ciummo*”?
- Cosa intendete dire Signora Nigro? Originale col ciummo?
I due si guardarono interrogandosi a vicenda con gli occhi.
- Vedete, voi siete giovani uomini e non fate da mangiare. Lo capisco. Originale col ciummo vuol dire che il pollo che ha il petto molto ricurvo è “originale”, cioè garantito, perché ha razzolato molto per bene per terra e ha sviluppato molto per bene i muscoli del petto! Allora, una volta preparato e messo nel forno nella sua giusta posizione, il petto forma una bella gobba…un ciummo, insomma!
- Ahhhh, ho capito! Vito tu hai capito?
Gianni e Pinotto si misero quasi a ridere, ma non andarono oltre. Nella loro cultura e nel loro codice d’onore, del tutto meridionali, la povertà non avrebbe mai potuto giustificare la scortesia di non ricevere con le dovute maniere un ospite, anche se ben conosciuto. Anzi, soprattutto se era ben conosciuto, fare un’offerta pure oltre le effettive possibilità era un atto dovuto. Tutto ciò andava rispettato.
I due s’accomodarono, declinarono con signorilità l’offerta del pollo “originale col ciummo” e accettarono volentieri il bicchiere di vino rosso.
- Beh, cosa dite ragazzi miei. Questa guerra finirà presto? Possiamo ritenerci già in salvo? –
- Ormai gli Alleati sono qui! – Esclamò Michele. – Signora stia tranquilla. Si tratta di tenere duro ancora per qualche giorno. Eppoi, ci siamo noi a difendervi. – Il sorriso del giovane marinaio s’allargò, lasciando scorgere i bei denti bianchi, ma con gl’incisivi superiori un po’ distanti tra loro.
Vito, non lo dava a vedere, ma traguardava Ada per carpirle un gesto, per rubarle uno sguardo. Le spiava le labbra carnose e le curve dei bei fianchi, la generosità del seno, ma non avrebbe mai azzardato una avance. Non avrebbe mai giocato scorrettamente. Michele era un amico vero e gli amici veri non si tradiscono, ancor meno che le proprie donne. La morale della povera gente, allora come oggi, era questa.
L’anziano capocannoniere di prima classe, Vito aveva raggiunto questo grado negli anni di servizio, nonostante l’inconveniente accadutogli sulle strisce pedonali, appoggiandosi al braccio di Mimmo ed equilibrandosi col suo signorile bastone, riuscì ad arrivare alla rosticceria Lo Russo.
- Buon giorno Comandante! Lo salutò con voce gigante e allegra Domenico, il proprietario, poiché sapeva che era un po’ sordastro. Malattia professionale, la definiva Vito, ridendoci su.
- Buon giorno caro. – gli si rivolse Vito con la sua cortesia d’altri tempi.
- Meh, sedetevi qui, pe favour. – Domenico, uscito dal bancone gli andò incontro, gli pulì e gli approntò un posto ad uno dei tavoli “all’americana”.
Nel quartiere Libertà, tutti sapevano chi era e tutti gli portavano rispetto. Primo perché era anziano, ma ancor di più perché era Vito Daddario e ognuno sapeva cosa aveva fatto quel due dicembre del 1943. La chiacchiera in città volava veloce come sulle ali di un falco in picchiata.
- Comm stesc. Domenico interrogò Mimmo con tono più basso, guardandolo negli occhi, sapendo che Vito non l’avrebbe inteso. –
- Stesc bun, stesc bun. Ripsose il nipote di Ada. –
- Ho vist tutt cos dalla vetrina. Sicuro che non si è fratturato il femore. Non zai, gli anziani… –
- Stesc bun t so’ ditt. E che scemo sooono? Piuttosto, mi sembra un po’ giù. Come fosse più assorto che mai nei suoi pensieri. –
In realtà, Vito non aveva più molti pensieri. Troppi erano ormai i ricordi che prendevano il sopravvento.
- Allora Comandante, ce lo facciamo un bel polletto “originale col ciummo” oggi che è il giorno dedicato al Signore? Gridò Domenico. –
- Certamente. Replicò Vito, quasi scosso dalla voce stentorea del proprietario. Il suo sguardo distratto attraversò la vetrina e andò dritto alla banchina del porto nuovo. La memoria, più veloce della luce, tornò a quel giorno di dicembre.
- Ma cos’è questo rumore? Chiese la signora Nigro. Non lo sentite anche voooi?
I due giovani marinai, la guardarono con fare sbigottito.
- Sì, non sentite questo ronzio di calabrone? Comm ie fuort, ora! –
Vito fissò Michele, il quale non era mai stato pronto come lui.
- A l murt! Il Barletta! Urlò Vito. S’alzò di scatto, prese il cappello e fece per imboccare la porta. Vide Michele ancora intontito.
- Bombardano, Miché! –
Michele, a causa della sua proverbiale lentezza nell’afferrare le situazioni, guardò la mamma di Ada e poi Ada, quasi come se non sapesse che fare.
- Marinaio comune di seconda Michele Sansovino, mi segua. È un ordine! –
Michele, allora, s’alzò e fece per andargli dietro, ma Ada s’interpose.
- Dove vai Michele. Gli parlò con voce lamentosa. Lascialo stare a quello lì. Non lo vedi che ie pacc. La guerra è finita! Finita! U capisc! –
- Devo andare. – Le rispose. – Devo andare. –
Ada, quasi in lacrime, inseguì entrambi fino sull’uscio di casa e li guardò correre verso il porto. Michele ebbe un attimo d’incertezza, si voltò ad osservarla con volto supplichevole. La vide portarsi le mani ai capelli. Poi, si girò e deciso seguì l’amico verso il porto nuovo.
Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi era apocalittico. La darsena era in fiamme. Erano in fiamme già almeno una dozzina di navi. Uno stormo di Junkers J 88 stava bombardando l’importante città di Bari.
- Saranno un centinaio! Urlo Vito.
- Mudu! Vito c cos vuoi fare? Sciamannin a cas! Curr!
- Non posso…non posso stare a guardare mentre chiss do distruggn la mia città. Non posso!
- So capisciut, Capo. Capooooo: ma cin gi vu fe?! Sciamannin! Levammc da do, t dic! Sind a me!
In quel mentre, sulla destra della banchina, Vito avvistò un Bofors 40 mm con mirino Stifkey, senza nessuno a manovrarlo. Il sottocapo cannoniere Daddario corse veloce verso l’arma. La conosceva bene perché nei pomeriggi di libera uscita l’aveva visitata più volte e, comunicando alla meno peggio con i cannonieri alleati, ne aveva imparato a memoria le caratteristiche e il funzionamento. Ormai, avrebbe anche potuto manovrarla da solo. Michele, per onore, per proteggere l’amico, lo seguì.
- Vai via Michè! Vattene …tornatn a cas! Tornatn da Ada. Vai, t so ditt!
- A l murt d’attant e d mammt! – Urlava a squarciagola Vito contro gli Junkers.
Raggiunse il cannone, s’infilò al volo sul sedile di ferro, cercò la manovella a destra per l’alzo e trovò Michele a fianco che stava già aggiustando d’intuito il trapezio sopra il mirino. L’amico gli sbloccò il brandeggio: destra-sinistra. Un po’ più a destra, ancora un po’ a sinistra. Rapido. Caricava le munizioni come un indemoniato. – Veloce, dai! – strillava Vito. Tutt’intorno era un inferno di fuoco e fumo. Il porto, quella sera, era pure illuminato per facilitare le operazioni di carico e scarico merci da destinare alla 15a Armata alleata. Gli Junkers J 88 tedeschi stavano facendo scempio di tutto. Vide l’amico che continuava a caricare le munizioni come un forsennato, con gli occhi che riflettevano il rosso del fuoco e gli venne da piangere. Il Barletta era già coricato sul fianco mezzo affondato.
- Vai Capo! Sbraitò Michele. Alzo 17! Vaiiii!!!
Vito come un invasato cominciò a tirare con la sua proverbiale precisione. Ondeggiava con sapienza. Il bofors, comandato bene, fece il suo dovere. Bam – Bam – Bam – Bam. A un bombardiere portò via la coda. Andò a cadere dalla parte del porto vecchio. Un altro lo centrò in pieno sul muso e praticamente esplose in volo. I Tedeschi, però, non stettero a guardare e, via radio, uno dei capi stormo avvertì tutti. Le bombe, per ironia della sorte di fabbricazione italiana, molto efficienti, non tardarono ad arrivare proprio in quella zona della banchina e una cadde a poche decine di metri dai due. L’onda d’urto fu terribile. Vito volò letteralmente all’indietro andando ad atterrare, ruzzolando, sul cemento della banchina. Michele scomparve in mare. Quel bombardamento a sorpresa fu definito in seguito dagli storici, forse non appropriatamente, la “Pearl Harbor” del Mediterraneo. Vito continuò per sempre a maledire quel canguro presuntuoso di Sir Arthur Coningham.
Ripresosi dalla botta, il giovane Capo si guardò intorno mentre tutto esplodeva. Una bomba centrò in pieno una nave statunitense di classe Liberty, la John Harvey, al molo 29. Era carica di Iprite e nessuno lo sapeva. Gli alleati, temendo che i nazisti potessero usare i gas, avevano fatto scorte di queste armi non consentite dalle convenzioni internazionali, più come deterrente verso le forze naziste che le detenevano anche loro, che con la volontà di usarle davvero.
Il sottocapo cannoniere, allora si gettò in mare alla cieca, all’incirca nel punto in cui pensava fosse volato Michele. L’acqua bruciava in superficie per il gasolio rovesciato dai serbatoi cisterna delle navi colpite. Ma ciò che si sarebbe in seguito rivelato più agghiacciante fu che la Harvey sversò in mare e nell’aria il suo mortale carico. Annaspando ad occhi aperti, sott’acqua come un pazzo, vide la sagoma dell’amico, lo raggiunse e lo afferrò per i capelli. Riuscì a nuotare, ora sott’acqua ora a pelo dell’acqua evitando per quanto possibile le chiazze di fuoco. Sentiva i marinai delle navi urlare perché bruciavano vivi. Arrivò alla banchina dove c’erano dei militari alleati che provavano a formare un intervento d’aiuto con le barelle. Con rabbia, si rituffò in mare.
- Hei you! Dumb! Where are you going?! Are you crazy! Get back! Get back I said! Jeeeesus Christ!!! – Gli urlarono dietro alcuni americani.
- Vito ne riportò altri tre alla banchina. Poi sfinito, quando issarono il terzo, sparì tra i flutti. Un tenente inglese medico con un mezzo marinaio* lo agganciò appena sotto la superficie e lo tirò con forza accostandolo al molo, mentre tutto scoppiava e bruciava.
Riaprì gli occhi in ospedale, Vito Daddario. Il dolore era sparso per tutto il corpo. Una giovane ausiliaria inglese era stesa nel letto accanto: intatta, ma completamente marrone. Era bella, si sorprese a pensare e si commosse. Capì solo molto tempo dopo perché era di quel colore. L’iprite aveva aggiunto sterminio allo sterminio. Più di mille militari e altrettanti civili persero la vita in quella sera maledetta del 2 dicembre 1943. La verità sull’iprite fu ostinatamente nascosta dalle forze alleate e soltanto dopo decenni e inchieste severe e precise si seppe come andarono le cose.
Vito per mesi non riuscì a muoversi nel suo letto di dolore, ma si salvò. Michele, invece, non ce la fece e fu una delle sofferenze più intense della sua vita.
Qualche anno dopo, una sera, passeggiando per via Sparano, il sottocapo cannoniere scorse Ada tra le persone. La riconobbe all’istante dalle sue forme leggiadre. Alcuni anni in più l’avevano resa ancora più bella. Sopra pensiero, non si era accorta che lui le veniva incontro in senso opposto. Quando i loro visi praticamente si sfiorarono, la bellissima Ada prima non riconobbe quel volto sfigurato, poi ebbe un sussulto. Non sapeva cosa fare, come comportarsi. Vito farfugliò: “Ada perdonami”. Lei lo fissò alcuni attimi intensamente, con i suoi occhi di velluto nero, poi girò la testa dall’altra parte e tirò dritto, convinta che l’ordine di seguirlo, a Michele, il sottocapo lo avesse dato di proposito, per sbarazzarsi dell’amico rivale. Vito che si salvò dal bombardamento, praticamente “morì” quella sera. Nonostante il suo handicap, ebbe più volte la possibilità di sposarsi, ma non lo fece. Restò un uomo solo, ad invecchiare con i suoi atroci ricordi e alcune parolacce lanciategli, di tanto in tanto, da qualche giovane troglodita.
- Allora Comandante? – Gridò con un sorriso di deferenza Domenico Lo Russo dal bancone della sua elegante rosticceria con le vetrine che davano sul porto, quasi a volerlo riportare tra gli avventori presenti. Lo prendiamo il solito polletto arrosto? –
- Vito distolse lo sguardo vetusto e greve di ricordi dalla vetrata del locale e dallo Skyline sud dell’insenatura. Fissando quasi inebetito il rosticciere, rispose con voce tremula:
- Sì, caro, mi raccomando per favore, che sia originale col ciummo. –
*Ciummo, in dialetto barese vuol dire gobba.
**Il mezzo marinaio è un’asta alla cui fine è posizionato una specie di arpione non affilato per il recupero in mare di oggetti o persone.
Gli eventi storici di questo racconto sono reali e documentatissimi. Tutto il resto, compresi i nomi e lo svolgimento personale dei fatti, è frutto della fantasia dell’autore.
Ogni riferimento a cose o a persone, quindi, è da ritenersi puramente casuale.