La chiave per la salute e la pace: l’equilibrio e il benessere della persona


Secondo l’OMS lo stato di salute è una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia o d’infermità. Allo stesso modo, la pace non è soltanto assenza di conflitti intorno a noi, ma soprattutto è assenza di conflitti dentro di noi. Le guerre tra gli Stati e i popoli vanno interpretate allo stesso modo in cui vanno interpretati i conflitti psichici. Il passo soterico che deve essere svolto è l’impegno a comprendere e integrare le parti della psiche separate che si pongono alla base del conflitto e, quindi, della nevrosi.
La stragrande maggioranza delle guerre, sia con l’intervento delle forze armate sia portate con altri mezzi, sono l’effetto di una vera e propria “nevrosi del potere”.
Così come nella vita in generale, anche in politica il problema principale è l’amore e l’educazione a questo sentimento. Gli antichi Greci distinguevano tre tipi di amore: Eros, l’amore sensuale, filìa, l’amore paritetico amicale e agàpe, l’amore di condivisione e d’impegno per l’altrui bene. Possiamo genericamente tradurre la parola agàpe come amore per il prossimo. La condivisione e il senso di fratellanza che si pongono alla base di questo vocabolo oggi sembrano del tutto appannati, sia nella vita quotidiana sia nella vita politica. Certo, l’egoismo e la sopraffazione sono sempre esistiti in tutti i periodi della storia delle civiltà. Oggi, però, l’amore per l’accoglienza, per la partecipazione allo stato altrui sembrano scotomizzati. Al contrario, la prepotenza, l’egoismo, il “me ne frego di te” purché io stia bene, si sono insediati alla base della psicologia contemporanea dell’essere comune (sia benestante che, purtroppo, non benestante). L’uomo ordinario appare sempre più convinto che – comportandosi in questo modo – vincerà la “lotta” per l’esistenza, la salute e il benessere. Non è così. Se è vero l’assioma per cui il primo altro in assoluto siamo noi, ogni prevaricazione, ogni sopruso, ogni ingiustizia che procureremo al nostro prossimo, li causeremo anche a noi stessi. È pura illusione credere che solo alcune “regioni” del mondo possano godere di salute, agiatezza e privilegi. Semmai va riveduto completamente il modello economico e psico-sociale che porta ad essi. Come ci insegnano la storia, la sociologia e anche l’economia, per l’appunto, in un tessuto “comunitario”, anche se l’ultima delle parti è in sofferenza, essa presto o tardi farà riverberare questa sofferenza fino a produrre uno “strappo” per il quale tutti, nessuno escluso, dovranno averne a patire. Il lavoratore/popolo sfruttato dallo “speculatore” che si crede furbo o al di sopra, sarà domani l’assaltatore che demolirà il ponte levatoio della rocca nella quale ora il “profittatore” si sente al sicuro. Tra la folla dei testimoni del degrado morale e materiale, cui l’egoista furbesco andrà inevitabilmente incontro, ci saranno sempre tutti coloro che egli avrebbe potuto far prosperare e che non ha aiutato a crescere.
La lotta tra il bene e il male, quindi tra lo stato di pace e quello di guerra, avviene nella mente di ogni singolo individuo prima che nella psiche collettiva. Il verbo latino administràre vuol dire servire, curare, fornire. Ministro, o addirittura primo ministro, dunque, significa colui che serve, che organizza – sopra e prima di ogni altro – il servizio (nel nostro caso della cosa pubblica degli Stati e delle Regioni). Tale significato non si può disgiungere dal principio dell’amore oblativo, se vogliamo che mantenga una vera capacità d’incidere nella comunità. L’azione più urgente per mantenere la salute e la pace tra le genti, in questo periodo così desolato della nostra vita globalizzata, orbene, non sono i risanamenti dei bilanci o dei debiti pubblici o le riforme della giustizia bensì il recupero della cultura dell’agàpe, dell’amore per il bene comune che passa, lo abbiamo compreso, attraverso la conquista di un benefico equilibrio psichico, individuale e collettivo.
Detto equilibrio lo si raggiunge senza mortificare la vitale, umana predisposizione psichica all’identità.
L’onda della globalizzazione, infatti, si infrange sullo scoglio fermo e disperato della necessità irrinunciabile all’identità. Le guerre combattute nel passato erano la conseguenza diretta della politica degli Stati nazionali: laddove falliva la mediazione politica si deponeva la penna e s’imbracciava il fucile. Nel suo celebre trattato sulla guerra Karl von Clausewitz delineava razionalmente la visione della guerra quale strumento per il proseguimento dell’azione politica fatto con altri mezzi: gli interessi economici, geografico-strategici, di potere erano la molla principale che faceva scattare il ricorso alla “risorsa” del conflitto bellico.
I fatti dell’Afganistan, ad esempio, ci inchiodano alla consapevolezza che lo “scontro” sta avvenendo non tanto per il raggiungimento di obbiettivi di conquista o economici, quanto per salvaguardare un’identità collettiva messa a dura prova da una cultura dello “effimero sociale” che corrode elementi importantissimi per l’equilibrio ed il benessere psichico sia singolo che collettivo quali: il territorio (Lévy Bruhl parla di participation mystique), l’idioma, la cultura e la fede religiosa.
Il consumismo dell’organizzazione economica mondiale di stampo occidentale trasferisce la competenza del riconoscimento identitario dallo stato di soggetto, campo in cui ha forte influenza la simbolica, il mito, la fede, allo stato di oggetto, campo in cui è il consumo di oggetti di produzione materiale o intellettuale a definire l’appartenenza: tu sei ciò che usi e consumi. Questa concezione del mondo ha minato nelle fondamenta l’importantissimo significato naturale e simbolico della vita. Anche nel quotidiano di ognuno di noi si può constatare quanto la lontananza da un intendimento più istintuale e profondo dell’esistenza (il rapporto col cibo, con la pulsione sessuale, il ristoro del corpo messo a dura prova da ritmi sempre più frenetici) si diluiscono e lasciano il campo a principi più superficiali ed immateriali quali il successo, l’apparire, l’ascendente sociale, la persuasione occulta.
L’infiacchimento identitario che tutto ciò comporta è alla base del movimento contrario, a volte feroce, volto al recupero dell’identità che si percepisce di essere sul punto di perdere. Quanto più i principi di vita ispirati alla superficialità ed all’immaterialità producono terra bruciata e deserto intorno allo spirito ed al sentimento, tanto più avremo un humus fertile per la strumentalizzazione del disperato bisogno dello spirito e del sentimento. Il fanatismo religioso nasce in questi territori: è una risposta di compensazione esagerata al bisogno di spirito, sentimento ed identità da considerarsi irrinunciabile per l’uomo. Per guarire dalla sofferenza prodotta dall’affievolimento dello spirito, del sentimento e dell’identità, l’inconscio sia individuale che collettivo mette in moto un ritorno agli aspetti più arcaici dell’esistenza e dell’identità sia del singolo che del collettivo. I legami arcaici ed ancestrali che derivano da questo ritorno all’arché producono una forte valenza “passionale” identitaria, tanto quanto la produzione di modelli intellettuali ed astratti consumistici conducono all’infiacchimento dell’identità. Il talebano kamikaze che si uccide sul bersaglio “demoniaco”, simbolo dell’occidente corrotto e mistificatore, è intriso di questa mistica soterica e da essa plagiato.
Ancora una volta è la creatività dell’artista ad anticipare e a definire in modo preciso ciò che scatena il ricorso all’atto bellico. Leone Tolstoj, in contrapposizione all’illuminismo di von Clausewitz, nel suo romanzo Guerra e pace, a proposito della spiegazione del disastro della campagna napoleonica in Russia, così si esprime.: “Il cuore del re è nella mano di Dio. Il re è schiavo della storia. La storia, cioè la vita incosciente comune, la vita di sciame dell’umanità, si serve di ogni momento della vita del re come di un mezzo per raggiungere i propri fini.” .
La vita incosciente comune di Tolstoj è ciò che Carl Gustav Jung chiamerà, qualche anno più tardi, inconscio collettivo: il dio nella cui mano è il cuore del re. Lo psicologo analista Claudio Risé, dal cui splendido testo Psicanalisi della guerra ho tratto maggiore spunto per queste mie riflessioni, ci ricorda che questa “forza superiore” non può essere compresa con la razionalità bensì con la passione che agisce da ponte di collegamento tra gli dèi e gli uomini: “Anche la guerra, come altri fenomeni centrali della vita dell’uomo, non viene compresa con la ragione, ma con l’amore, la passione. Si tratta più di un’esperienza emozionale, passionale, che di calcolo.”
È paradossalmente con l’interpretazione del pathos e dell’amore che ci possiamo spiegare gli atti scellerati che si sono compiuti e si stanno, purtroppo, ancora compiendo in questi tragici giorni. Il dio nella cui mano è il cuore del re è, seguendo Carl Gustav Jung, uno degli archetipi di cui si compone l’inconscio collettivo. Quando un archetipo si attiva, sia a livello del singolo individuo, sia a livello comune sociale, si rischia di esserne posseduti se non si interviene con una forte analisi razionale a differenziare l’inconscio. Gli archetipi sono gli dèi dei popoli, forze psichiche primordiali innate nell’inconscio collettivo di “molte razze” che “esercitano su di queste un’influenza diretta”. La ragione – purtroppo molti responsabili politici non se ne rendono conto appieno – non ha buon gioco nei confronti delle immense forze dell’inconscio se conserva l’ingenua presunzione di poterlo controllare. Le guerre non si fanno per ragioni o convenienze, si fanno per ideologia, visione della vita, passione. Se un talebano deponesse la sua passione e la sua visione religiosa del mondo, non imbraccerebbe mai un’arma contro il più potente raggruppamento di Stati alleati mai visto. Gli uomini non sono disposti a morire per calcolo od interesse, ma sono disposti ad immolarsi sull’altare delle loro passioni. Dio è l’archetipo, la forza psichica in grado di incarnare la passione e dal Deus vult passando per il Got mit uns si giunge al in God we trust e ad Allah è grande e Maometto il suo profeta. Nei testi più antichi si agitano le figure di divinità ispiratrici della guerra, figure dal carattere energetico più che personale e “dal Mahabarata all’Iliade, all’Edda, all’Antico testamento e perfino al Nuovo Testamento che si chiude con l’Apocalisse”, se saremo in grado di analizzare ciò che vi è scritto, riceveremo la comprensione che la guerra, col suo triste bagaglio di morte e desolazione, è l’esatto contrario di un calcolo della ragione. La guerra, ci ricorda ancora Claudio Risé, “E’ l’irruzione di un archetipo nella vita degli uomini: essi, avvicinandosi a quest’immagine piena di energia per nutrirsi del suo significato simbolico e rafforzare così la propria identità ed il loro potere, ne cadono preda.”
Per evitare la guerra e giungere a realizzare e mantenere la pace, allora, è bene conoscerne le motivazioni psichiche più nascoste e profonde; ogni politico, ogni leader, ogni capo di governo dovrebbe poterlo fare. È necessario accostarsi con il massimo rispetto e la massima attenzione agli dèi, queste forze psichiche che Jung chiamava archetipi, perché sono essi che conducono gli uomini allo scontro bellico. Se differenziate e integrate adeguatamente a livello psichico, queste stesse forze, che altrimenti ci accompagnerebbero fino alla distruzione totale, potrebbero trasformarsi nel maggior “propellente” che spinge ad ottenere pace, benessere, prosperità diffusa e stabile.