La generazione perduta
Un vecchio e un bambino si preser per mano
e andarono insieme incontro alla sera;Francesco Guccini, Il vecchio e il bambino
Come negli scritti dei nostri antichi testi sacri, l’angelo della morte è passato anche questa volta, ma non per portar via la generazione dei primogeniti quanto, invece, quella degli anziani.
La strage, più o meno silente, alla quale abbiamo assistito e stiamo continuando ad assistere, non ha precedenti nemmeno nell’ultimo conflitto mondiale, dove a morire in modo copioso fu la generazione di mezzo o addirittura quella ancor più giovane.
I decessi odierni, legati al Covid19, registrano un numero impressionante tra i cosiddetti “vecchi”. Qualche cultura cinica ha parlato di selezione naturale o, più genericamente, d’immunità di gregge e ha freddamente suggerito di prepararsi a dire addio ad alcuni dei nostri cari. Questo era il prezzo da pagare secondo gli illuminati della “teoria del gregge”. Erano partiti in quarta, salvo, poi, ad accorgersi che detta immunità non solo non garantiva il superamento del pericolo epidemico, ma procurava un danno incalcolabile alla società tutta e, perbacco, con ogni probabilità anche a loro stessi.
La brusca interruzione della “catena intergenerazionale” non procura solo rovine economiche che tutto sommato sono calcolabili, ma anche e soprattutto incalcolabili danni psicologici. L’improvviso e repentino annullamento di una cospicua parte della generazione anziana produce di sicuro una crisi di perdita di “identità collettiva profonda”. Noi non siamo tanto figli dei nostri genitori quanto siamo figli dei nonni dei nostri nonni. Addirittura la disposizione psicologica più oscura e meno vissuta dagli avi si presenta spesso come destino nelle vite dei pronipoti.
I nonni sono i depositari della saggezza acquisita e a volte conquistata con la sofferenza del vivere che è la scuola in assoluto più dura e impegnativa. L’esperienza, infatti, è una maestra molto severa perché prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione.
La presa di coscienza della scomparsa dell’esperienza intergenerazionale sarà devastante e apporterà grande dolore. In effetti, la peggiore condanna per l’essere umano è la perdita della sua memoria e, quindi, in parte anche della sua consapevolezza. Nessun personal computer o corso di formazione on line può dare la trasmissione di capacità che una persona saggia e carica d’esperienza di vita invece può elargire. Lo sguardo di chi educa soprattutto con l’esempio, con lo stare accanto e non solo con la narrazione, risiede nel corpo fisico, non in quello virtuale. Il corpo è ospite dello sguardo oltreché portatore di un nome che lo individua (proprio nel senso dell’etimo latino: indivisibile) e lo rende unico. Nella nostra cultura italiana, noi usiamo dare ai nostri figli e ai nostri nipoti i nomi dei nonni. Io la trovo una scelta molto importante e carica di affetto nonché di speranza e augurio. Gli antichi Romani usavano questa espressione: nomen omen, cioè nel nome è racchiuso il destino della persona. In antiche culture non latine c’era l’usanza di procurarsi un soprannome e di nascondere gelosamente il proprio vero nome. Era così forte il credo che nel nome reale si nascondesse il destino dell’individuo che non lo si rendeva noto, per precauzione.
Una delle più belle canzoni del cantautore Francesco Guccini è “Il vecchio e il bambino”. Quando uscì ero giovane e non gli detti il peso che oggi, anziano, riesco a dargli. Come sempre il genio dell’artista è isolato e giunge a rivelare il senso delle cose molto prima che questo possa essere riconosciuto e compreso dai molti.
Non credo esista un’immagine più “numinosa” nel senso della trascendenza, cioè di qualcosa che va oltre l’ordinario, di quella di un vecchio che accoglie la tenera mano di un bambino nella sua rugosa e segnata dal tempo.
Per carità, fuori dalla retorica, c’è da dire che non tutti gli anziani sono saggi solo perché hanno i capelli bianchi. Il passare degli anni non garantisce al cento per cento il raggiungimento del buon senso e dell’equilibrio, ma offre tanta visione di vita trascorsa, e anche da divenire, quale occasione formidabile di crescita. Gli antichi Greci sostenevano che il passato (ormai conosciuto) fosse al nostro cospetto mentre il futuro (ancora da conoscere) fosse alle nostre spalle. È proprio così, la psiche anziana è carica di visioni del passato e, quindi, di ricordi e rischia di essere preda della nostalgia e della depressione per qualcosa che è stato e che non potrà mai più tornare. Ecco perché l’anziano deve imparare a vivere come se davanti a sé avesse ancora secoli a disposizione. La mente anziana coltivata con il miglior studio e la miglior predisposizione ad essere calato nel mondo ha sempre prodotto capolavori. Soprattutto quando è stata rispettata e non tralasciata da una colpevole negligenza e da una irresponsabile dimenticanza.
Leonardo da Vinci, trascurato se non addirittura perseguitato, fu costretto a lasciare la terra italica e a rifugiarsi in Francia presso il re Francesco I che lo accolse con immenso rispetto, chiamandolo “padre mio”. L’indiscusso genio toscano morì a 67 anni (oggi sarebbe considerato un “giovane anziano”), contornato d’affetto, tra le braccia del re francese in lacrime. Oggi, invece, siamo costretti ad assistere a tantissime, troppe scene strazianti di braccia annichilite di anziani, alzate da un letto nel tentativo di raschiare dal cielo lontani ricordi. Sul viso, un’ultima, solitaria smorfia avida d’aria.