La lontananza

Nella girandola di avvenimenti depressivi cui ci ha costretto l’epidemia da covid 19 una delle situazioni peggiori alla quale siamo chiamati a far fronte è il distanziamento interpersonale. Preferisco questo termine a “distanza sociale”. Quest’ultimo mi richiama in mente la differenza tra le classi sociali e perciò non credo sia del tutto corretto. La distanza sociale esisteva anche prima dell’avvento del virus in questione. Il “distacco” al quale ci costringe questo agente patogeno, invece, è del tutto individuale seppure trasversale tra gli strati della società. Quindi, la lontananza fisica che impone il vituperato germe è un vulnus grave perché mette fuori gioco una delle necessità più fondamentali dell’essere umano: il contatto. Sappiamo attraverso gli studi di psicologia infantile che il primo e il più importante dei sensi chiamati in causa alla nascita è il tatto, per l’appunto. Oggi, dopo un lungo periodo di latenza, tale sapere è stato completamente assorbito finalmente dalla moderna ostetricia italiana e, alla nascita, il bambino con ancora il cordone ombelicale sano è posto sulla pancia nuda della madre. Il contatto epidermico con la consistenza del corpo materno, col suo tepore, con la sua superfice liscia è un imprinting così forte che ce lo ritroviamo durante tutto il corso della nostra vita. L’abbraccio rassicurante della madre, i suoi baci teneri, le sue carezze affettuose costituiranno la ricerca incessante d’amore in ognuno di noi durante tutto l’acro della nostra esistenza.

  L’abbraccio amorevole di una madre ci condiziona per tutta la vita.

 È così importante il contatto fisico, che in alcune tecniche psicoterapeutiche, strettamente codificate da regole rigorose, è previsto ed utilizzato a fine benefico e di guarigione anche da stati depressivi e melanconici. L’importanza del contatto la si riscontra in molte liturgie, compresa quella cattolica quando il sacerdote, in chiesa, invita a scambiare un segno di pace. Quindi, anche alla luce di queste poche e semplici spiegazioni, è facile comprendere perché il colpo che il covid 19 ha assestato all’intera umanità è duro e profondo. Le inevitabili costrizioni che derivano da questa necessità profilattica fanno saltare le abitudini d’incontro che sono il sale della vita di ogni persona. L’Uomo è un essere sociale e, nella norma, ha bisogno della presenza degli altri perché è attraverso il riconoscimento del suo prossimo che riceve una forte conferma al suo Io. Paradossalmente, al contempo, l’individuo ha bisogno della sua privacy e, dunque, la possibilità di potersi ritirare in una sua dimensione d’intimità più isolata. Guai se non potesse avere questa eventualità. L’imposizione di restare relegato in un posto ristretto, senza la possibilità d’interrompere il suo stato di ritiro, non a caso è una delle più pesanti pene, a seconda della durata, che anche l’ordinamento giudiziario irroga. La penuria di contatti, la distanza da chi ci vuole bene e a cui vogliamo bene è una condizione che facilmente può far scivolare in uno stato depressivo e, addirittura, acuire forme larvate e non evidenti di malessere psichico. Stiamo assistendo, in questo lock down prolungato, a fenomeni di recrudescenza di atti di violenza, anche orientati contro la propria persona. Non ultime le rivolte di gruppi che non accettano la prolungata costrizione delle loro libertà. Rileviamo, con la chiusura della didattica a distanza, masnade di preadolescenti che si danno appuntamento via social media soltanto per affrontarsi e picchiarsi. Molti si chiedono ingenuamente da dove deriva questa urgenza di violenza. La spiegazione è semplice. Il contatto col prossimo è così importante e determinante per la conferma del proprio Io che anche il gesto violento è preferibile al vuoto e all’assenza. Una carezza e un bacio sono il top; lo schiaffo e il calcio, comunque, sono preferibili all’indifferenza che ci rende invisibili a noi stessi e al mondo. In una novella di Edgar Allan Poe, L’uomo della folla, il terrore corre sul filo della sconvolgente ansia che un uomo prova alla sola idea di non poter avere contatto fisico e visivo con il suo prossimo. L’aumento parossistico dell’angoscia viaggia di pari passo con l’arrivo della notte, periodo in cui i contatti e gli avvistamenti decrescono inevitabilmente.

Anche la nostalgia dell’emigrante è spiegabile attraverso la constatazione di quanto sia vitale per ognuno di avere vicinanza con chi ci vuole bene o, comunque, ci riconosca. Vivere in un Paese straniero per necessità dove nessuno, soprattutto i primi tempi, ti rivolge la parola perché non sei né conosciuto né riconosciuto (un invisibile, forse il peggior incubo che si possa sognare), apre una ferita psichica insanabile e inenarrabile che fa voltare lo sguardo all’indietro alle cose care, alle persone più amate, alla terra d’origine, madre terra dai cui riti e dalle forme di partecipazione si trae la linfa vitale e la forza per vivere.

Pellizza da Volpedo, La lettera dell’emigrato, 1888

 

 La bouffèe delirante psichiatrica (TBP) dell’emigrante è un fenomeno psichico ben conosciuto nei Paesi a forte immigrazione. Alla luce di queste brevi considerazioni è comunque presto chiara la necessità dei gruppi etnici di riunirsi, periodicamente in luoghi e orari prefissati per il ritrovo, nelle città ospitanti straniere. Anche il sorgere di quartieri denominati, ad esempio, Little Italy o Chinatown è di facile comprensione a questo punto.  

Gli studiosi di paleoantropologia (il prof. David Caramelli dell’università di Firenze ad esempio) hanno supposto una ipotesi alternativa riguardo all’estinzione del Neanderthal, aggiuntiva a quella dell’ibridazione o del disastro climatico (eruzione del megavulcano Toba). Sappiamo che lo sviluppo filogenetico dell’essere umano non è da considerarsi longitudinale causale, ma stocastico, cioè, circolare casuale. Contemporaneamente sul pianeta vivevano molte specie umane (alcuni studiosi le declamano come sottospecie) quali l’Homo neanderthalensis, per l’appunto, che secondo alcuni paleontologi genetisti condivideva dal 99,5% al 99,9% del patrimonio del DNA con l’Homo sapiens. (Edward Rubin del Lawrence Berkeley National Laboratory). Altre tipologie di Homo esistevano contemporaneamente al Sapiens, realtà “umane” che alcuni scienziati non si sentono di definire sue sottospecie, in accordo con molti colleghi che preferiscono il temine di specie. L’homo idaltu; l’homo heidelbergensis; l’homo neanderthalensis; l’homo di Desinova; Lo studio della paleoantropologia ci fa comprendere come il potere dell’Uomo è determinato dalla collettività. Il pensiero astratto (che porta al simbolico e al logico matematico) con ogni probabilità è stata la “forza” del Sapiens. Questa sua caratteristica intellettiva lo induceva a riunirsi in comunità numerose proprio per seguire la sua necessità di simbolismo e di trascendente.

 

I rituali animistico religiosi con forte partecipazione del Sapiens

 Le liturgie religioso animistiche sono tracciate in numerose sue testimonianze riscontrabili in reperti manufatturieri, resti di ossa, pitture rupestri etc. Gli altri esseri umani contemporanei del Sapiens probabilmente, pure essendo abili e con competenze eccellenti di adattamento all’ambiente, non avevano molto sviluppata questa capacità di pensiero. Quindi, si riunivano in famiglie non molto numerose.

   Famiglia di Neanderthalensi

 Il Sapiens, pur debole sotto tanti aspetti come essere vivente, è riuscito a vincere la sfida della sopravvivenza perché si riuniva in larghe comunità e, di conseguenza, attraverso le codifiche liturgiche, cooperava meglio di qualsiasi altro suo simile o diverso animale sulla Terra. Il segreto del suo successo è stata ed è tutt’ora la sua capacità di fare comunità. Nella comunità il contatto, principio oppositivo per eccellenza della distanza o della lontananza, è tutto. Non credo nella evoluzione pacifica del genere umano. La competizione per la sopravvivenza deve essere stata durissima, contro la natura e contro i simili pretendenti alle stesse risorse. Il Sapiens moderno, come lo intendiamo oggi, ha convissuto con molti suoi affini, ma ha vinto la sfida della non estinzione facendo letteralmente strage di tutti gli altri “umani” suoi contemporanei. La vicinanza, il contatto, lo stare insieme con rituali codificati producendo gerarchie e compiti sociali è stata la sua vera forza. Ai nostri giorni, per noi discendenti, resta la stessa enorme necessità di poter espletare questa caratteristica di vicinanza, d’incontro, di essere in presenza nella comunità senza la quale siamo preda di paure ancestrali poiché, allora come oggi, essere isolati significa maggiore vulnerabilità o, addirittura, morte. Ecco perché la distanza interpersonale, a cui l’epidemia da covid 19 ci ha condannati da molti mesi ormai, produce effetti così negativi nella psiche fino a farci reagire con intolleranza, esplosioni di violenza o, perfino, con depressione.