L’amore chiuso fuori
Nessun’altra perdita può annientare un essere umano come la perdita dell’amore, perché con esso ci si è sentiti indispensabili e veri e la sua mancanza ci fa capire che non lo saremo più.
Perdere l’amore è uno dei dolori psicologici più intensi che una persona possa provare. Ciò può avvenire per svariati motivi: un decesso, un innamoramento parallelo del partner, una distrazione protratta di uno dei componenti la coppia. Quando l’amore viene chiuso fuori dai confini della nostra anima, comunque, sia chi lascia sia chi è lasciato provano una sofferenza indicibile. Chi lascia, a meno che non sia perché muore fisicamente, si deve confrontare con un senso di colpa molto opprimente. Allora, scattano nella mente di chi si allontana mille versioni e giustificazioni al suo operato. Spesso, questi adattamenti e scusanti sono costruiti ad hoc e servono a far rimordere meno la coscienza: “Tu non mi amavi più; erano anni ormai che ti imploravo attenzione e tu non me la davi; non ero più felice; non hai mai fatto questo, non hai mai fatto quello; oppure, hai fatto questo, hai fatto quello … ”. Sono versioni e giustificazioni per lo più false, nel senso che sappiamo quanto sia ingenuo pensare che nella relazione amorosa ci sia un solo responsabile delle cose che non vanno o che non sono andate. Se poi, per esempio, si imputa all’altro che era distratto e non forniva più le attenzioni dovute, dichiarandolo solo dopo la decisione di troncare la relazione, è vero che non si vuole offrire alcuna possibilità di intervento a correggere il tiro. Saggezza vorrebbe che, quanto meno, ci si procuri lo spazio e il tempo di riflettere tempestivamente su ciò che non va. E non serve a nulla ripeterlo ossessivamente senza riuscire a coinvolgere davvero il partner a fermarsi per poter discutere seriamente circa l’andamento negativo del rapporto. Solo riuscendo a captare l’attenzione vera del compagna/o si possono evitare drammi e sofferenze maggiori. Allora, il ragionare il più possibile pacatamente sulla crisi può offrire sostanzialmente due vie d’uscita: il recupero della relazione o il suo termine, entrambi agevolati dal confronto sereno e costruttivo.
Dichiarare all’altra/o di non amarla/o più senza dare la possibilità di “difesa”, equivale ad un’azione vigliacca, agita per incapacità strutturale della propria personalità ad affrontare con coraggio il problema. Una mancanza, questa, che il dichiarante probabilmente si porta e si porterà dietro per tutta la vita, riproponendola modularmente, col comportamento di abbandonante, ad ogni chiusura dell’amore fuori dai confini della sua anima, a meno che non compia al riguardo un lavoro psicologico ben strutturato.
Chi è abbandonato dall’amore, invece, è messo di fronte ad una sentenza che assomiglia ad una condanna a morte. L’amore che lo individuava, lo faceva sentire vivo, lo aveva tratto dalla nebbia fredda e oscura del luogo senza bene, non c’è più. Allora l’Io individuato, fortemente sostenuto dal sentimento e dall’emozione amorosa, può andare in frantumi. È un momento molto sofferente e pericoloso. L’Io frantumato non ha più la capacità in questo frangente di esercitare il suo controllo razionale sulla psiche e sulla realtà.
Anche persone forti e di grande maturità possono reagire in maniera scomposta alla perdita dell’amore. Proprio per tale motivo leggiamo sui quotidiani o ascoltiamo dai telegiornali storie di sangue e di violenza. Colei/ui che perde l’amore e subisce un crollo dell’Io si sente spacciata/o, sente di andare in pezzi: da quel momento in poi non ha più alcuna ragione a procedere nella sua vita e può prodursi in azioni aggressive, in opposizione alla “violenza” della perdita che lo condanna ad una esistenza senza senso.
La perdita dell’amore è una “morte” di difficile elaborazione, un lutto che comporta spesso lunghi tempi di elaborazione ed è una/o illusa/o chi pensa che le cose si possano superare, a posteriori, frapponendo un lasso di tempo più o meno lungo per far sbollire la situazione, con un semplice chiarimento. I chiarimenti vanno fatti prima e con calma. Gli strati psichici che sono interessati appartengono alla profondità della psiche primaria dove madre natura ci ha impresso un dictat potentissimo che fa percepire al bambino la perdita delle attenzioni, delle cure e dell’affetto paragonabile alla fine inevitabile della vita. Chi perde l’amore si viene a percepire in fin di vita e le strategie di sopravvivenza sono le più svariate. Una delle più classiche, ma sbagliata ai fini dell’immagine che si dà all’amato che ci abbandona, è quella di voler incutere pietà nell’animo dell’abbandonante. Strategia fallimentare perché chi abbandona deve essere spietato, altrimenti non riuscirebbe a portare a compimento il suo crudele compito. Inoltre, la persona dell’abbandonato, già svalutata da tutta una serie di ragionamenti e ricordi “aggiustati” a proprio uso e consumo dall’abbandonante (la demonizzazione dell’altro è funzione del distacco, come il conflitto), trova conferma del suo poco valore nel comportamento debole in cerca di pietà e comprensione. L’abbandonato è un superstite e come tale un testimone oculare della catastrofe conseguente alla perdita dell’amore. Contemporaneamente è un martire di una devastazione che ha agito all’interno della sua psiche e della sua personalità, così tanto desiderate dall’altra/o prima dell’avvento dell’abbandono.
Chi è lasciato resta completamente isolato a combattere contro un’esperienza così angosciosa. Cosa si può fare in questi casi? Non esistono decaloghi o manuali. Ognuno vivrà l’abbandono o l’abbandonare a modo suo, col suo proprio stile dovuto alla sua unicità. L’abbandono ci pone di fonte alla nostra nullità, al nostro fallimento, alla nostra nudità. È proprio in questi momenti così devastanti che dobbiamo essere in grado di scorgere la possibilità che la vita ci offre. Dobbiamo dunque vivere l’esperienza dell’abbandono fino in fondo, poiché è solo così che potremo toccare con mano chi siamo veramente. Con tanto coraggio e forza residua dobbiamo ripartire da questa presa di coscienza per attuare il lavoro della ricostruzione. Se siamo in grado di fare ciò, poniamo le basi per l’arrivo di una nuova storia d’amore.
È in questa disperazione pura e profonda che non dobbiamo sottrarci all’incarico di creare un nuovo contatto. L’altra/o che va via ha condiviso l’esperienza dello stare insieme e non può azzerarla. La storia amorosa conclusa fa parte delle anime di entrambi i componenti della coppia e non può essere annullata. Ciò non toglie che l’interruzione del rapporto sia difficilissima da accettare perché difficilissima da capire. Nella fine passiva del rapporto, quando si è lasciati, si prova il senso più profondo del fallimento. L’abbandonato percepisce di non aver dato quello che avrebbe dovuto nel rapporto e, soprattutto, che non è stato quello che avrebbe dovuto essere. Le domande che si pone ossessivamente sono: “ Che cosa ho fatto?” e “Che cosa avrei dovuto fare?”, “Perché non sono stato in grado di gestire al meglio questa situazione?”. È qui che può nascere il pensiero della morte, quando si capisce di aver fallito nella propria dimensione di esseri umani. Si desidera di non esistere più, perché l’idea che l’abbandono sia un prodotto della propria insufficienza non è tollerabile.
I suicidi per amore si collocano in quest’area del pensiero, dove il rapporto è percepito come fallimento e dove si evidenzia chiaramente la propria inadeguatezza a fare rimanere l’altro. In queste situazioni è difficilissimo intervenire per dare sollievo, perché non esistono ragionamenti in grado di intervenire sul nucleo profondo della personalità di chi ha subito l’abbandono. Il senso ed il valore del proprio Io e di tutto il proprio essere sono stati stritolati.
Disperarsi per qualcosa, dunque, non è ancora la vera disperazione nel caso della perdita d’amore. La vera disperazione è il disperarsi di se stessi, di ciò che ci rendiamo conto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, di ciò che potremmo ora fare, perché abbiamo capito gli errori, e che non ci è più data la possibilità di fare perché “fuori tempo massimo”. Il “fuori tempo massimo”, però, è anche la zona temporale dove avvengono i miracoli, altrimenti non sarebbero tali. Può succedere in alcuni casi, dunque, che la crisi “abbandonica” diventi una salutare lezione e funga da forte stimolo di crescita e recupero per entrambi i componenti la coppia, che si riposizionano su nuove, entusiasmanti e più vigorose prospettive.
Quando, invece, l’abbandono è irrecuperabile, il silenzio dell’altra/o a seguito dell’abbandono è lo sterminato deserto in cui veniamo abbandonati senza bussola né riferimenti. Noi possiamo solo avviare le storie d’amore, questo ci è concesso, ma non possiamo mai prevedere come andranno a finire. Partiamo per un viaggio che crediamo di poter programmare e controllare nei dettagli e che, invece, presto o tardi ci sfuggirà di mano, dirigendosi dove a lui più piacerà. Nelle storie d’amore la forza entusiasmante deriva dalla promessa percepita di eternità in esse contenute. Un frammento di eternità esiste in ogni relazione amorosa perché ognuno è portatore del desiderio d’infinito e, dunque, si desidera e ci s’illude che esse durino per sempre, perché si è facilmente ingordi della felicità che ne deriva. Inoltre, in ogni relazione amorosa è contenuto anche, inesorabilmente, il suo termine che non vogliamo vedere perché troppo doloroso. In questa altalena continua tra infinito e transitorio, tra paradiso e inferno è racchiusa la tragicità e la magnificenza dell’essere umano, del suo fato e del destino delle sue storie d’amore.