Tu vuo’ fa’ l’americano

Euterpe, dal greco antico: ευ (bene)   τερπ-ω (piacere), cioè colei che crea un buon piacere, era per gli antichi Greci la musa della musica, forse la più potente.

La “piacevole” Euterpe

In effetti, la musica è un’espressione dell’arte umana che non conosce rivali in quanto a capacità di coinvolgere. Per essere più chiari, La comunicazione uditiva è più antica di quella visiva. Prima dell’invenzione della scrittura, la cultura si tramandava verbalmente e molte delle tradizioni orali erano espresse in poemi o canti per facilitarne la memorizzazione. Si pensi solo al biblico cantico dei cantici, al francescano cantico delle creature o al nordico canto dell’Edda, tutte espressioni musicali cantate, alcune a recitativo, solo in un secondo tempo trascritte da colti personaggi che hanno introdotto le loro inevitabili interpretazioni e varianti.

Jan Steen, Il menestrello, 1670

Anche gli antichi testi greci rivelano la loro origine cantata: “Cantami, o Diva…”, l’Iliade ci suggerisce la sua possibile origine musicale. In effetti, era usanza nell’antichità riunirsi al tramonto nelle corti, o in luoghi stabiliti e selezionati, per comunicarsi fatti, eventi, imprese, il tutto oralmente a recitativo e con accompagnamento musicale. Da allora tante cose sono cambiate, ma in sostanza le necessità per poter godere dell’incanto musicale sono ancora oggi le stesse: un’atmosfera particolare, un luogo deputato (oggi, nell’hip pop le strade delle metropoli nord americane), dei cantori coinvolgenti con musici e musica entusiasmante in grado di colpire gli animi e le sensibilità.

Ed è proprio qui che si crea il primo grande punto di divergenza. Un hub, diremo oggi con un anglofonismo, che raccoglie e ridistribuisce le varie modalità di realizzazione espressiva musicale. Nei secoli, i modi di fare musica si sono evoluti e hanno preso caratteristiche dalle svariate culture. La musica etnica è una branca che ci fa capire quanto le differenze culturali abbiano influito nella realizzazione dei brani e quanto, con l’andar degli anni, queste differenze siano entrate in contatto tra loro creando una contaminazione che ha toccato, in alcuni casi, livelli sublimi.

Il grande, indimenticabile Pino Daniele

Con la cosiddetta Globalizzazione, ai nostri giorni, si verifica il fenomeno dell’influenza degli usi musicali. Non tutto però è positivo, secondo me, perché alcune influenze sono il risultato di una capacità industriale da parete di alcuni Paesi in grado non solo d’ispirare, ma proprio d’imporre il loro gusto. Giorni fa ero in un grande negozio di elettronica per comprare un Ipad e la musica (se così la vogliamo chiamare) era così forte e qualitativamente scadente che mi sono permesso di esprimere il mio disappunto di cliente al direttore di sala. Il responsabile mi ha risposto che questa è la musica che l’80% degli avventori del negozio, tutti giovani, vogliono sentire. I brani erano degli hip pop recitati da un certo Eminem, espressione di punta di un modo da cerebrolesi di strapazzare Euterpe.

Eminem durante un concerto si tiene su i pantaloni troppo larghi, forse perché mettersi delle braghe della propria taglia o una cinta o un paio di bretelle sarebbe stato un atto troppo poco sovversivo o troppo intelligente?

A parte il fatto che non credo che l’80% degli avventori di quel negozio vogliano siffatta musica (perché i giovani in Italia sono ormai inferiori come numero rispetto ai più attempatelli che sono coloro, comunque, in grado di poter comprare poiché posseggono un reddito consistente), ma sono convinto che soltanto il giovane e ignorante (non solo nel senso del marketing) direttore di sala la volesse ascoltare. Questo genere di sgorbio musicale, credo fermamente, sarebbe bene che restasse confinato nelle regioni del Paese che la produce. Purtroppo, l’Italia dopo la sconfitta e la grande tragedia della seconda guerra mondiale, si è trovata a diventare un mercato condizionato dalla forza economico-industriale della più potente nazione vincitrice: Gli stati Uniti d’America. Una povera nazione la nostra, ormai periferia di un impero condizionata, ahinoi, anche culturalmente in senso generale, quando, invece, proprio culturalmente non dovrebbe esserlo, visto che in quanto a cultura, l’Italia potrebbe esportarne a tonnellate.

L’istituto italiano di cultura di Parigi

La musica è composta da armonie, melodie, tonalità, polifonie, accenti, tempo e ritmo. Nello sconcertante, monotono e irritante modo espressivo hip pop tutto questo è ridotto al minimo. Un ritmo noioso in 4/4, ma con pochi cambi di tempo, composto da armonie e accenti basic ripetitivi fino all’esasperazione. Ora, non contesto che tale movimento possa avere interessanti origini culturali e che possa e debba manifestarsi, confuto invece il fatto che ce lo debbano propinare in maniera così preponderante nelle nostre vite europee che con l’hip pop non hanno molto a che fare e del quale l’80% di noi (col beneplacito del responsabile di sala del negozio da me sopra citato) potrebbe benissimo e salutisticamente fare a meno. È vero che, ormai, gli U.S.A. esprimono una loro cultura e una loro particolare forma artistica in ogni campo, ma è pur vero che anche l’Europa, e l’Italia in particolare, può dire la sua in fatto di cultura e non credo che il paragone sia sostenibile dagli statunitensi. Infatti, molte università nordamericane prestigiose mandano i loro studenti a studiare arte e cultura qui da noi.

Il prestigioso Politecnico di Milano

Allora, perché dobbiamo subire questo massacro cerebrale con certa musica che devasta l’animo e spinge ad un nervosismo che si palesa negli atti quotidiani sia americani sia della cultura subordinata che ne fa grande uso. Se accendiamo la radio al mattino in ogni emittente è sparata questa musica negletta, in qualsiasi posto vai devi subire il bombardamento industriale di musica che con le nostre origini non ha nulla a che vedere. Il fenomeno non è recente e principia, come accennavo sopra, nel dopoguerra. Ricordo con patetica nostalgia gli scimmiottamenti dei cantanti rocker americani di un giovanissimo e molleggiato Adriano Celentano o la riproduzione in copia italiana di un Bobby solo che si rifaceva a Elvis Presley o di un Little Tony che riproponeva per le genti italiche il modo di cantare di Little Richard. Ancor di più, mi sovviene l’ironica bravura strumentale dell’indimenticato Renato Carosone e della sua formidabile band che riproponevano sì il modo di suonare statunitense, ma reinterpretato con un’arguzia e una satira tutta partenopea: “Tu vuo’ fa’ l’americano, ma sei nato in Italì”.

Adriano Celentano, Bobby solo, Little Tony, Renato Carosone

Attualmente, L’unica possibilità di sottrarsi a questa violenza impositiva di lunga data è quella offertaci dalla tecnologia. Con un atto di legittima difesa e un cellulare di ultima generazione, si può evitare lo sgomento dell’animo programmando una lista musicale di proprio gradimento che non spappoli gli atri ventricolari cerebrali. Il problema non si risolve così, purtroppo. L’unica possibilità di contrasto, con l’obbiettivo di ridurre l’esposizione ad una fisiologica percentuale, al fine di una ottimale soluzione, è quella di creare vera cultura musicale in ogni dove per poter riscoprire e rilanciare anche le nostre radici culturali sonore: nelle periferie delle città, nelle scuole, nei centri educativi per formare una coscienza collettiva naturalmente refrattaria a questo abuso obbligante. Provocatoriamente parlando, ai monologhi esasperati ed esasperanti di Eminem dovremmo riscoprire, rivalorizzare e preferire la semplicità sagace degli stornelli del Sor Capanna.