Il serpente e la lupa Francesco Borromini da Bissone a Roma
Se è vero che la vita è un viaggio, non c’è dubbio che ognuno debba percorrerlo. È il viaggio a prendersi cura di noi e non il contrario.1 Ora, il viaggio si può dichiarare tale quando è previsto un ritorno; il ritorno della vita è lo status quo ante. Nella letteratura di ogni tempo sono stati scritti libri e romanzi che hanno il viaggio come «protagonista di fondo». Dall’Odissea di Omero a Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, dalla Anabasi di Senofonte a Robinson Crusoé di Daniel Defoe, grandi autori sono stati affascinati dalla tematica del viaggio. Se il viaggio non attua il suo ritorno diventa uno spostamento o una migrazione. Il viaggio si pone alla base della narrazione. L’emigrazione no. Quando l’uomo era cacciatore-raccoglitore «viaggiava» e tornava sempre alla sua «abitazione» per raccontare ciò che aveva visto e imparato con lo scopo di accrescere la conoscenza per il bene comune. Quello che costituisce il tessuto di cui si veste ogni migrante, invece, è la nostalgia e non il racconto. Dunque, il viaggio e la sua narrazione sono terapeutici, curano. L’emigrazione, al contrario, apre una ferita causata dalla nostalgia e dalla melanconia della perdita.
Francesco Castelli da Bissone (in arte Francesco Borromini) compie un’emigrazione e non un viaggio e la intraprende a nove anni. È facile supporre, allora, che anche nella psiche del Borromini si laceri una ferita psicologica, un basic fault, una mancanza fondamentale per dirla con Michael Balint,2 dalla quale origineranno la maggior parte dei suoi comportamenti e molte delle sue risposte «passionali», pregne di dolore, agli eventi dell’esistenza; in queste risposte non è fuori luogo considerare anche le sue opere architettoniche a dir poco straordinarie. Parte a nove anni Francesco e nel suo «tragitto» si ferma a Milano presso lo scultore Andrea Biffi (1560-1631), conoscente del padre. L’apprendista scalpellino Francesco Castelli lavora alla Fabbrica del Duomo, insieme con tante altre maestranze sotto la supervisione dell’architetto Francesco Maria Ricchino (1584-1658).
Queste esperienze lavorative «primarie» costituiranno le fondamenta della sbalorditiva bravura dell’architetto ticinese. Le esperienze «primarie» psicologiche, invece, compresa quella della precoce «emigrazione», attiveranno l’alchimia del suo carattere schivo, difficile e incline alla depressione. Al contrario del viaggio che dona l’esperienza del racconto, momento di condivisione e di corale relazione, l’emigrazione consegna alla perdita «primaria» del luogo natio e alla solitudine melanconica del non condivisibile: ferita inenarrabile. Siamo sospinti da forze potentissime che sfuggono alla nostra comprensione razionale, così come sostenevano Arthur Schopenhauer (1788-1860) e Carl Gustav Jung (1875-1961). Il genio è spesso espressione di una sofferenza interiore: si è geniali perché sofferenti e non sofferenti perché geniali.3 La genialità si caratterizza anche per una sua componente «attiva» di azione, di movimento e di cambiamento. Nel 1619 Francesco, a vent’anni, lascia, di sua iniziativa questa volta, Milano e orienta il suo cammino verso Roma, la città eterna delle grandi committenze cattolico/controriformiste e giammai gotico/luterane. Egli impugna il suo timone esistenziale e per mezzo del «tradimento» della fiducia paterna (sembra abbia riscosso un credito dovuto al padre, ma senza avergli detto nulla) punta la prua verso l’allora «Eldorado» degli artisti, la città del papa, la caput mundi. La storia dell’umanità e anche quella di ogni individuo crescono e si sviluppano sempre per mezzo di un atto di coraggio e sovente anche attraverso un tradimento della fiducia più incondizionata. Trādĕre era un verbo militare romano che voleva dire: portare al cospetto del magistrato. Il tradimento ci porta dinanzi a ciò che siamo, nel bene e nel male.
Nel «tradimento» di Francesco Castelli possiamo intravedere una qualità del suo carattere: l’ambizione. Ora, l’ambizione può essere sottesa da un principio di vanità o da un principio di legittima autoaffermazione. Nel caso del Borromini possiamo parlare con assoluta certezza di legittima autoaffermazione. Nonostante ciò che afferma lo pseudo Sallustio: «Faber est suae quisque fortunae»,4 cioè ognuno è artefice della propria sorte, nella vita a volte la fortuna, intesa non come destino, ma proprio come coincidenza di fatti positivi o negativi, dice la sua. Ci sono persone così povere che l’unica cosa che posseggono è il denaro. Francesco Castelli è sempre stato «ricco»: non gli interessavano tanto i soldi quanto la possibilità di poter esprimere la propria arte «visionaria». La competenza accumulata durante il suo cammino di formazione da Bissone a Milano, da Milano a Roma è a dir poco sorprendente. Con un’avidità di sapere che è spesso caratteristica delle personalità che hanno ricevuto poco nella vita, Francesco apprende tutto. Comincia dal basso, fa la gavetta e impara ogni passaggio di una costruzione dal più umile scalpellìo della pietra angolare fino ad arrivare al disegno e alla progettazione di un intero palazzo. Sapeva fare tutto benissimo, perché tutto doveva essere sotto il suo controllo per poter giungere alla realizzazione della sua idea così come l’aveva immaginata.
Non riuscirci avrebbe potuto significare per lui il fallimento e, quindi, il non riconoscimento del suo genio innovativo, evento fuori discussione. Perciò, era sempre presente in cantiere durante i lavori per la realizzazione dei suoi progetti e se un operaio non svolgeva il compito, anche il più semplice come delineato nella sua mente, lo sostituiva e lo eseguiva da sé. Questa brama di essere riconosciuto come architetto geniale non sgorgava tanto dall’urgenza di ottenere successo e gloria, piuttosto era una necessità del suo animo portatore della ferita dei non amati. Era l’amore che cercava Francesco. L’amore dei suoi simili e, soprattutto, l’amore divino. La frase che Étienne Barilier riporta nel suo interessantissimo libro Francesco Borromini. Le mystère et l’éclat: «Non ha mai sofferto di essere pagato male, ha sofferto di essere male amato», la dice lunga sulla costituzione della sua personalità.5 La puericultura e, particolarmente, la pedagogia moderna non sono appannaggio del secolo in cui visse Borromini. La cultura della cura dell’infanzia nasce con Jean Jacques Rousseau e prosegue col grande Johann Heinrich Pestalozzi (due eccezionali svizzeri anch’essi) fino ad arrivare agli odierni pedagogisti. Francesco è stato immesso nel flusso del percorso di vita esterno alla famiglia quando era un bambino, probabilmente per necessità. Immaginiamo di essere dei bambini di nove anni e che, per sopravvivenza, i nostri genitori ci mandino a bottega ad apprendere un mestiere. Ci riuscirebbe più facile capire il dolore e la sofferenza che tale decisione potrebbe procurare: non più l’alveo famigliare né l’amore della mamma, del papà o dei parenti più stretti a farci da scudo. Cammina figlio mio, non posso garantirti altro che un indirizzo dove mandarti a guadagnare di che vivere. Francesco parte e va a lavorare per guadagnarsi il pane. Chiunque avrebbe potuto fermarsi a produrre quanto richiesto e basta. Il nostro geniale architetto no. Reagisce. Non solo apprende ciò che gli è stato assegnato di realizzare, ma guarda, scruta, confronta, assorbe tutto ciò che c’è da imparare. L’animo del Borromini è gonfio di amarezza perché ha vissuto lo strappo dalle premure primarie e la «fredda» Milano non lo soddisfa. Quindi, si dirige verso Roma perché lì sa di poter contare sull’affetto dello zio materno, Leone Garovo. Leone lo accoglie nella sua dimora in vicolo dell’Angelo, tra ponte Sant’Angelo e la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. «Fortuna audacibus juvat» e l’audacia «malinconica» di Francesco lo aiuta davvero. Il suocero di Leone Garovo era proprio il validissimo architetto Carlo Maderno (1556-1629, l’artefice della facciata di San Pietro, per intenderci). A Carlo viene presentato il ragazzo Francesco, figlio di Anastasia Garovo, sorella del genero, e non passa molto tempo finché il grande ingegnere costruttore si accorge della straordinaria predisposizione del Borromini ad apprendere tutto e benissimo, soprattutto il disegno di progettazione. Tra i due si istaura, nemmeno a dirlo, un rapporto che non è solo professionale, ma affettivo e profondo. Il fatto che Francesco ritratti il suo testamento in punto di morte e disponga di essere collocato non più in San Carlino alle Quattro Fontane, ma nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini accanto alla sepoltura di Carlo Maderno, la dice lunga sul loro rapporto. Maderno protegge letteralmente Borromini e gli insegna con passione ogni competenza del mestiere, contribuendo enormemente a formare l’eccezionale bravura del giovane, facendolo diventare un vero e proprio architetto.
Il «cammin di nostra vita» è caratterizzato dal paesaggio. Per chi non sfida l’esistenza ed è fermo, abbarbicato sulle proprie posizioni, la veduta è sempre la stessa. Forse ciò può contribuire a dare un senso di appartenenza e di sicurezza; certamente, però, non elargisce stimoli dovuti al cambiamento di visuale e alla varietà meravigliosa degli ambienti che si vanno a incontrare. L’homo sapiens sapiens nasce e si sviluppa nel corno dell’Africa orientale (Etiopia, Somalia, Eritrea). A seguito dell’ultima glaciazione intorno ai 25-19 mila anni fa, il clima in quella zona cambia e diventa più arido. I sapiens sapiens sono ancora dei cacciatori-raccoglitori e si spostano a est in cerca di ambienti migliori in cui vivere. Arrivano in Medio Oriente attraverso il lembo di Suez e più a sud passando per lo stretto di Bab El-Mandeb (porta del pianto) che oggi misura quasi 37 km, ma allora, a causa dell’ultima era glaciale, era largo circa 7 km. David Caramelli, antropologo molecolare all’Università di Firenze, pubblica nel 2007 su «Nature» un enorme studio sulla storia, l’emigrazione e l’evoluzione degli antichi europei ove si evince facilmente quanto l’ambiente sia determinante nel cambiare le caratteristiche fisiche del genere umano. Il sapiens sapiens era alto, nero, ma passando all’est mediorientale e virando a ovest in Europa perde le sue peculiarità somatiche: si depigmenta, la sua pelle si schiarisce, gli occhi diventano azzurri e la statura si abbassa. Se è vero che le tipicità dei luoghi influenzano la formazione e lo sviluppo fisici (particolarmente quello cerebrale), è facile supporre che essi plasmino anche la costituzione psicologica di fondo che andrà a caratterizzare ulteriormente l’espressione artistica.6 Nella musica classica abbiamo almeno due esempi col valzer triste del finlandese Joan Sibelius e con le sinfonie del norvegese Edvard Grieg.
Bissone e le sue condizioni geo-orografiche e atmosferiche, insieme con una miriade di altre suggestioni, possono aver condizionato il primo sviluppo psichico dello straordinario architetto ticinese. La piccola città giace ai piedi della Sighignola, una montagna che sul versante svizzero si getta di colpo nel lago, con un salto «suicida» di circa mille metri. L’ambiente è caratteristico, molto ammaliante, ma esprime al contempo esasperazione e forte contrasto. Stretto nella morsa del lago, Bissone ha una disposizione planimetrica limitata, non contiene più di due grandi strade.
«Le sue stradine, chiamate ‘contrade’, e i porticati dalle volte di pietra lungo la via principale del paese, che corre grosso modo parallela alla riva del lago, sono interessanti, ma non tanto da meritare una visita. In realtà, il paesino fa nascere una certa tensione, per non dire ansia, nel visitatore. […] Ma a dire il vero sono le montagne che sconcertano. Torreggiano sopra il paese, pareti a strapiombo di nuda roccia alleggerite appena dai cipressi e dalle palme che sorgono ai loro piedi. Con la loro ombra umida, onnipresente, assediano Bissone come muti guerrieri.»
Francesco Castelli non fa eccezione alla regola. Si forma in un territorio dagli opposti esasperati, insieme aspro e lussureggiante, dove la bruma è più presente che a Napoli, dove la gente oscilla tra l’introverso e il cordiale, ma non è mai invadente. I suoi artigiani, scalpellini e capi mastri competenti e fieri, per lunghi anni contribuirono a costruire i palazzi, le chiese, le grandi opere di tutta Europa, da Vienna a Palermo, da Praga a Istanbul. Fu anche grazie al contatto con questo «orgoglio costruttivo» che si formò il carattere di Borromini. In Proverbios y cantares della raccolta Campos de Castilla, 8 il poeta sivigliano Antonio Machado scrive: «Al andar se hace camino», «il cammino si fa con l’andare». La vita si svolge vivendola. Così la vita di Francesco si plasma un passo dopo l’altro, a seguito delle sue decisioni, delle sue azioni nel suo «andar». Dunque, da Milano, la città di San Carlo Borromeo, Francesco si mette in cammino e giunge a Roma. Qui, dopo qualche tempo cambia il suo cognome da Castelli in Borromini, sembra proprio perché il cognome Castelli a Roma, in quel tempo, fosse troppo diffuso. Per distinguersi, memore della sua prima, forte esperienza milanese, sceglie di riferirsi a San Carlo Borromeo al quale, chissà, si sarà appellato nei suoi momenti tristi e bui. Borromini, quindi, da «Borromeo». Tutto ciò che è stato il suo procedere, il suo muoversi nel mondo lo ha influenzato così come questo principio condiziona la vita di ognuno di noi. Del «percorso» di vita fan parte anche le origini. Quelle psichiche del Borromini è accettabile pensare che fossero abbandoniche. I genitori lo spingono precocemente nel mondo e Francesco comincia a marciare. Il nucleo abbandonico che costituisce la sua personalità, però, gli tiene compagnia, quasi fosse un paredro, una divinità minore che affianca, seduta, quella più grande e potente che è la sua creatività. Proprio tale sua formazione primaria della personalità farà confluire in un drammatico solco esistenziale la sua vita. Man mano che il cammino gli presenta alcune situazioni di difficile gestione, il suo carattere lo fa reagire con veemenza e poca diplomazia. Risponde con doloroso orgoglio a ogni contestazione, seppur lieve, dei suoi progetti e delle sue opere. La personalità abbandonica insorge male a ogni tipo di critica negativa perché la vive come se fosse una dichiarazione di allontanamento e di distacco. Francesco non regge la svalutazione contenuta nelle critiche perché in esse non c’è riconoscimento e, soprattutto, non c’è amore, cosa di cui lui è perennemente assetato. Un carattere «fumino» direbbero i toscani, che ci ricorda la personalità «fuggitiva» di un altro grande artista barocco incamminatosi anch’egli dal nord brumoso verso la solare Roma in cerca di fortuna: Michelangelo Merisi detto Caravaggio.
Il movimento sembra
la cifra comune di tanti artisti di quel periodo che con le loro amorevoli mani
e i loro intelletti innovatori ci hanno donato la grazia e la bellezza.
Francesco inventa, immagina, progetta, macina e mischia, poi compone, tira su,
realizza e consegna al mondo intero sempre qualcosa che, al contempo, stordisce
(poiché nuovo) ed esalta (poiché bello); appena può ricomincia, prima che nel
suo animo «metta a neve». Il fuoco sacro della creatività è l’unico «calore»
che riesce a far attaccare alla vita l’artista Francesco Borromini. Nel suo
tragitto di vita Francesco può contare su poche cose che lo tengano al caldo. La
prima in assoluto è questo «focolare creativo» al quale può infervorare la
propria anima e, subito dopo, l’amore di Dio che egli non tradirà mai e che non
lo abbandonerà mai, nemmeno nell’estremo momento del disperato trapasso poiché
gli concederà il tempo di pentirsi e di mondarsi dal peccato di essersi tolto
la vita. Lavora frenetico il nostro architetto ticinese, indefesso, nello
studio con le planimetrie e i progetti vergati sulle carte a fargli compagnia,
suoi unici «figlioli». Non si sposa e il sospetto di omosessualità che avanzano
alcuni critici personalmente credo non abbia corpo. Piuttosto, è più opportuno
evidenziare come tutta questa iperattività, questo essere presente nelle sfide
costruttive, questo non rilassarsi mai sia tipico di alcune personalità
tendenti alla depressione. Il genio, sovente, è saturnino, incline alla
melanconia. L’iperattivismo innovativo e visionario, possiamo asserire, si pone
ad argine dello stato depresso, in arrivo o già insediato, e cerca di
contenerlo. Come tutti gli innovatori, anche Francesco si attira il biasimo, se
non proprio la rabbia, dei suoi contemporanei, architetti più ortodossi. Alcuni
lo descrivono così:
«Infamia del nostro secolo, è un maestro
nell’arte di distruggere, manca d’ogni grazia sociale, la sua arte è frutto
d’un delirio, delle più inconcepibili fantasie».
Francesco commenta, ammonendo i lettori nella breve comunicazione dell’Opus architectonicum scritto da Francesco Spada a metà del Seicento su sua stessa ispirazione e pubblicato postumo nel 1725:
«[…] pregoli ricordarsi, quando talvolta gli paia che io mi allontani dai comuni disegni di quello che diceva Michelangelo prencipe degli architetti, che chi segue altri non gli va mai innanzi».
E ancora:
«Ed io al certo non mi sarei posto in
questa professione col fine d’esser solo copista […] nell’inventar cose nuove
non si può ricevere il frutto della fatica se non tardi; siccome non lo
ricevette lo stesso Michelangelo, quando nel riformare la grande architettura
della basilica di San Pietro veniva lacerato per le nuove forme ed ornati, che
da’ suoi emuli venivano censurate, a segno che procurarono più volte di farlo
privare della carica di architetto di San Pietro, ma indarno: e il tempo poi ha
chiarito che tutte le cose sue sono state reputate degne d’imitazione e
d’ammirazione. E Dio vi salvi».
Gli si può leggere facilmente nel pensiero e possiamo immaginarlo parlare a se stesso nella solitudine del suo studio: «Ma sarò io a trovare nuove soluzioni e a sconvolgere a mio modo palazzi, chiese, cupole e basiliche». L’iter di Francesco continua e, una volta a Roma, non si ferma. Non che si muova più dalla città eterna, essenzialmente vi rimane fino alla morte, ma il cammino della sua creatività non conosce soste, anche quando le committenze scarseggiano o si interrompono. Possiamo sostenere che, una volta arrivato nella città capitolina, il suo tragitto procede in loco. Non più un solo spostamento dalle fredde nebbie del nord al caldo sole del sud, ma tanti percorsi da un quartiere romano all’altro. Francesco si porta dalla sua abitazione alle residenze dei committenti, il papa in primis e poi i cardinali e i nobili signori che apprezzano il suo genio e la sua elevatissima competenza. Alcuni, avendo direttamente a che fare con lui, purtroppo, gradiranno meno il suo carattere introverso e orgoglioso. Con un po’ di fantasia, riusciamo a immaginare tutto il suo procedere nelle strade di Roma. Rappresentando in rosso ogni suo muoversi, possiamo visualizzare una rete di linee da un uscio all’altro, lungo selciati e vicoli, attraverso piazze ariose e vie ombrose. Una tela di ragno creata dal suo andare che traccerà anche l’ultimo «filo» fino alla porta di casa, da dove non uscirà più vivo. Una «ragnatela» che ognuno di noi produce, quasi fossimo ragni di noi stessi, e nella quale o ai margini della quale ognuno terminerà il proprio cammino, esattamente come Francesco Borromini.
Parlando in particolare del movimento, non possiamo fare a meno di rilevare che è la caratteristica principale del Barocco. Lo troviamo sia nelle volute degli ornamenti sia nei soggetti stessi, siano essi architettonici, scultorei o figurativi; dalle facciate concave e convesse delle chiese e dei palazzi ai santi e a coloro che sono rappresentati nelle sculture e nei quadri. Non più staticità ieratica e immanenza divina, ma azione e movimento colti nel loro attimo veritiero. Se Caravaggio (1571-1610) è il massimo esponente barocco del moto per la pittura e Bernini (1598-1680) per la scultura, Borromini lo è per l’architettura. Il suo percorso architettonico anticonformista parte sempre da basi planimetriche molto geometriche e ossessivamente precise per svilupparsi, man mano, lungo il cammino ascensionale, in movimento di convessità, concavità, anche di linee rette,
ma a contrasto. Potremmo raffrontare al percorso di vita di Francesco l’opposizione di basi esatte e lo sviluppo del moto degli elementi architettonici lungo le facciate e le fiancate fino a giungere allo «scompiglio» delle cime, siano esse cupole o lanterne. In effetti, Borromini, partito da luoghi e azioni più rigorosi e semplici, perviene, passando per la sosta meneghina, all’esplosione dell’«eroticità» del Barocco romano. La sua arte è realizzata da una competenza logica fuori discussione, eppure anche emotiva, che inizia da un infinito per giungere a un altro infinito. Un ponte con i suoi appoggi sospesi nell’incommensurabile. Le lanterne poste sulle cupole delle sue chiese, tanto vituperate dai suoi detrattori contemporanei, servono sì a illuminare l’interno, ma sono caratterizzate all’esterno da ascensioni a spirale; perché? È solo una soluzione tecnica? Perché non fare le salite ad angolo, con una torre a parallelepipedo, tra l’altro, credo, più facili da costruire? Io sono convinto che Borromini le realizzi proprio perché la forma elicoidale delle ascese è una spirale. Egli si sente a proprio agio con la forma della spirale. Lo scalone elicoidale di Palazzo Barberini non lascia dubbi sul fatto che sia stato Borromini a progettarlo, anche se il responsabile della committenza, Carlo Maderno, era ormai molto condizionato dal Bernini, nuovo astro nascente dell’architettura, ben posizionato nelle grazie papaline. Si sa che Francesco ha raccolto conchiglie per tutta la sua esistenza. Nell’inventario dei suoi beni, alla sua morte, è catalogata una grossa conchiglia «montata su un piedistallo a forma di artiglio d’aquila». 11 La spirale, in ogni cultura religiosa d’ogni genere e tempo, ha sempre simboleggiato il percorso della conoscenza dal divino all’uomo e dall’uomo al divino. Da sempre la spirale è un simbolo dell’infinito. La tecnologia dei telescopi spaziali più moderni (Hubble, Keplero) messi a disposizione della fisica astronomica ci consegna immagini sbalorditive del nostro cosmo. Sembra che l’universo sia
cominciato con un’inimmaginabile esplosione quale risposta alla concentrazione parossistica della gravità in un solo punto. Una deflagrazione di cui si percepisce ancora il rumore. Nel 1964 Arno Penzias e Robert Woodrow lo scoprono e lo chiamano «radiazione cosmica di fondo» (in acronimo anglofono CMBR) e per questo ricevono il Nobel nel 1978. La nostra galassia è una spirale a barra con un buco nero al centro che sembra attiri qualsiasi cosa entri nel suo immenso campo gravitazionale. Un foro scuro dalla gravità inconcepibile, così potente che non lascia sfuggire nemmeno la luce ed è per quello che risulta totalmente buio; un luogo dalla forza di gravità così poderosa che anche lo spazio e il tempo si deformano al suo interno. Tutto ciò che orbita intorno a questo buco nero fino al suo «orizzonte degli eventi» è illuminato dalla luce di infinite stelle, non è posto su un piano piatto, ma ha una disposizione che richiama vagamente la forma di una trottola. La spirale di questa immensa trottola, che è la nostra galassia, è un percorso a due vie: se la si guarda da una parte può essere destrogira, ma se la si osserva dall’altra ecco che cambia verso e diventa levogira. La spirale segna una percorrenza a due direzioni nel tempo infinito, dal divino all’uomo, dall’uomo al divino secondo l’intendimento religioso. Ecco perché la scelta dell’innalzamento a spirale nelle lanterne. Perché la lanterna è lo zenit della cupola. Dopo di essa c’è il firmamento, sede della «sapienza» della divinità celeste e l’ascesa elicoidale porta lì, ma da lì porta anche, inversamente, al nadir dell’umana condizione, punto d’arrivo dell’amore di Dio. Non va dimenticato che Francesco Borromini era cattolico credente, nominato anch’egli, come Gian Lorenzo Bernini, cavaliere papale del supremo Ordine di Cristo.
«L’opera architettonica del Borromini stupisce e cattura all’istante le menti più preparate e sensibili perché è meno distratta dagli affanni dovuti alla gestione delle somme da richiedere, da ricevere o da mantenere. La sua architettura è espressione di pura concentrazione d’arte ‘incontaminata’. Le forme delle chiese e delle costruzioni edificate secondo i progetti dell’innovativo architetto ticinese esprimono un ragionamento contorto, ma calcolatissimo al contempo; sovversivo e intollerante, ma tradizionalista e amorevole; diffidente, ma generoso; emotivo, ma insieme razionale e composto; introverso, ma aperto alla realtà, specie se competitiva: proprio come la sua personalità. Tutto ciò lo consegna inesorabilmente alla sua solitudine. Ha scritto Bruno Zevi: ‘Il caso Borromini è specifico e irripetibile: consiste nello sforzo eroico, quasi sovrumano, di effettuare una rivoluzione architettonica in un contesto sociale chiuso e indisponibile, malgrado i nuovi indirizzi della scienza. L’appiglio al tardo-antico, al gotico, a Michelangiolo non era soltanto un tentativo di legittimare l’eresia sotto una copertura di riferimenti autorevoli, ma anche un modo intimo, disperato, di cercare un interlocutore’».
Continua il suo andare Francesco, ma come scrive C.G. Jung in Aion: «Quando un fatto interiore non viene reso cosciente si produce fuori, come destino».13 Ciò che sancisce la fine di Borromini, come ho cercato di spiegare con questo mio scritto, ha avuto origine nei primi accadimenti della sua vita. L’imprinting del suo carattere fu dovuto alla perdita e a un vuoto, conseguenza di un cammino solitario cominciato troppo presto. Aveva difficoltà a relazionarsi con le esigenze degli altri e, nel concepire la sua arte, era inflessibile nel mantenere le proprie idee. Insofferente alle critiche altrui era costretto, invece, a vivere in un periodo storico che pretendeva ubbidienza. La sua malinconia, spesso caratteristica dei geni, insieme con il suo atteggiamento paranoide e sospettoso lo rendevano un personaggio scomodo con cui trattare. Possedeva un senso dell’onore accentuato, scattava alla pur minima allusione che tendesse a squalificarlo e manifestava sempre insofferenza a qualsiasi critica rivolta ai suoi lavori. Eppure, stando a quanto sostiene padre Virgilio Spada della confraternita romana dei Filippini della Chiesa Nuova (uno dei pochi protettori di Borromini, costante nel suo appoggio anche nei momenti più difficili dell’artista) se preso per il verso giusto, Francesco si rivela docile e gentile come un cucciolo che avesse bisogno di premure. Un’altra peculiarità del carattere del Borromini, non ultima per importanza, era l’onestà che, insieme con la sua scarsa avidità pecuniaria, ne segna il destino. A ogni buon conto, non dobbiamo pensare che lo stupefacente architetto ticinese fosse del tutto uno sprovveduto. Secondo la biografia di Francesco Borromini pubblicata nel 1772 da Giovanni Battista Passeri,14 Francesco fa un’esperienza di disonestà altrui che lo lascia sconcertato. Quando l’architetto capo della Fabbrica di San Pietro non era più Maderno, ma Gian Lorenzo Bernini (uno degli altri geni della Roma barocca) la necessità di approvvigionamento di marmo e di pietra per la basilica continuava a essere immensa quanto la basilica stessa. Francesco si mette in società con Agostino Radi, cognato di Bernini, poiché il grande scultore affida ai due l’incarico di rifornire una ingente parte dei marmi e delle pietre che occorrevano per adornare la magnifica chiesa dedicata al primo papa del cristianesimo. L’impresa, però, si dimostra non così vantaggiosa come avrebbe dovuto essere. Il carattere sospettoso di Borromini ci volle vedere chiaro e scoprì che Gian Lorenzo Bernini e Agostino Radi si erano accordati in segreto: Radi girava a Bernini una sostanziosa parte dei profitti della società a fronte dell’onore di procurare il marmo all’«architetto capo di San Pietro». La bustarella non è, evidentemente, un fenomeno della Roma moderna. Seguendo la biografia del Passeri, scoperto l’inganno, Borromini immediatamente e irremovibilmente «abbandonò ogni impresa (di scultura), l’amicizia di Bernini, e la fabbrica di San Pietro e si diede tutto all’architettura».15 Se è indiscutibile che Borromini e Bernini collaborarono per circa nove anni, è altrettanto certo che da allora in poi le loro strade si dividono definitivamente e diventano due «geni rivali». Benché ci tenesse molto a definirsi florentinus, Gian Lorenzo Bernini nasce a Napoli, da madre napoletana e padre di Sesto Fiorentino (Pietro Paolo, ottimo scultore anch’egli: la barcaccia a piazza di Spagna e il bassorilievo dell’Assunzione della Vergine Maria nella cappella paolina di Santa Maria Maggiore sono tra le sue opere più conosciute). Entrambi con i loro appoggi (Borromini patrocinato da Carlo Maderno per lungo periodo primo architetto di San Pietro e Bernini dalla corte papale nella quale era ben introdotto il padre) ciò che fa la differenza nei loro «percorsi» artistici e nella vita sono le loro personalità: introverso, melanconico, ostico e solitario il primo quanto estroverso, gioviale e di eccellente capacità di saper stare al mondo e di tenere le relazioni pubbliche il secondo (nella sua lunga carriera artistica Gian Lorenzo Bernini si relaziona con dieci papi, con alterne vicende, ma quasi sempre proficue). L’uno muore solo e suicida, a seguito del gesto disperato di essersi gettato sulla sua stessa spada, l’altro – nemmeno a dirlo – per morte naturale, anziano e fino all’ultimo con la voglia e la capacità di comunicare con le tante persone che gli sono attorno. Ne L’idiota di Dostoevskij, Ippolìt chiede al principe Miskin: «È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?».16 Concludendo questo breve e necessariamente incompleto scritto su Borromini e sul percorso di vita che lo conduce da Bissone a Roma via Milano, non resta che constatare quanto questo architetto ticinese, uno dei più straordinari geni costruttivi mai esistiti, abbia contribuito e continui tuttora, quanto meno, a salvare Roma con la «grande bellezza» delle sue opere. Proprio al contrario di quanto avviene nel romanzo di Dostoevskij, la bellezza realizzata da Francesco cura e salva. Di fronte alle opere del Borromini, chi ha una sensibilità artistica non può far altro che, sbigottito, abbracciarne idealmente la splendida creatività, curandosi e mettendosi al riparo dal brutto mortifero. Personalmente dichiaro, con emozione, tutta la mia gratitudine per il tesoro soterico che Francesco ci ha donato: un bene prezioso affidatoci dalle premurose mani mosse da un irripetibile, melanconico genio d’artista.
* Ivan Battista Psicologo, psicoterapeuta, formatore, saggista e scrittore, già docente esperto della S.M.O. (Scuola Medica Ospedaliera, Ospedale Santo Spirito, Roma). L’ultimo dei suoi numerosi libri porta il titolo Psicoarchitettura, Riflessioni di uno psicologo sull’arte di costruire.
Note:
1 Ivan Battista, Kentauros, istinti e ragione nella psicologia del motociclista, Pieraldo, Roma 1995.
2 Michael e Enid Balint, La regressione, Raffaello Cortina, Milano 1983.
3 Aldo Carotenuto, Trattato di psicologia della personalità e delle differenze individuali, Raffaello Cortina, Milano 1991.
4 Gaius Sallustius Crispus, Appendix sallustiana, Fasc. 1, Epistulae ad Caesarem senem de re publica 1,1,2, a cura di Alfons Kurfess, B. G. Teubner, Leipzig 1970, 7a ed.
5 Étienne Barilier, Francesco Borromini. Le mystère et l’éclat, Presses polytechniques et universitaires romandes, Collection le savoir suisse, Lausanne 2009.
6 Frederic Vester, Il pensiero, l’apprendimento e la memoria, Giunti, Firenze 1987.
7 Jake Morrissey, Geni rivali. Bernini, Borromini e la creazione di Roma barocca, Laterza, Bari 2010, p. 37.
8 Antonio Machado, Campos de Castilla, a cura di Francisco Jose Arenas Martinez, Editorial Bruño, Madrid 2012.
9 Francesco Borromini, Opus architectonicum (1725), a cura di Roberto De Benedictis, Edizioni De Rubeis, Anzio (Roma) 1993.
10 Marta Lonzi, Autenticità e progetto, Editoriale Jaca Book, Milano 2006, p. 12.
11 Joseph Connors, Francesco Borromini: la vita (1599-1667), in Richard Bösel – Christoph L. Frommel (a cura di), Borromini e l’universo barocco (catalogo della mostra tenutasi a Palazzo delle Esposizioni a Roma nel 1999-2000), Electa, Milano 1999, p. 19. Il materiale è stato consultato nella versione online del saggio all’indirizzo www. columbia.edu/~jc65/cvlinks/vita.html, 2000, ora non più disponibile.
12 Bruno Zevi, Attualità di Borromini, in «L’architettura, cronache e storia», 519, gennaio 1999. Il brano è riportato anche nel mio articolo, Francesco Borromini. La melanconia del genio, pubblicato sul webmagazine «Animamediatica», 8 gennaio 2015.
13 Carl Gustav Jung, Aion: ricerche sul simbolismo del sé, in Opere, vol. 9**, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
14 Joseph Connors, Francesco Borromini…, op. cit.
15 Ibidem. 16 Fëdor Dostoevskij, L’idiota, Newton Compton, Roma 2010.
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