La storica importanza del gioco nell’economia psichica dell’adulto e del bambino

Il gioco è sempre stato di  fondamentale  importanza  per  lo  sviluppo intellettivo

dell’essere umano. Non solo, ma la sua rilevanza si esprime anche, e soprattutto, nei confronti dell’equilibrio psichico. Equilibrio che deve essere inteso in senso dinamico e non statico. Esso, infatti, cambia col variare delle nostre esperienze, valide o non valide, che portano immutabilmente ad un apprendimento. L’esperienza, qui va detto con un importante inciso, è la più severa delle insegnanti perché prima ti fa l’esame e poi ti insegna la lezione. Nulla come il gioco ci conduce vicino all’esperienza e, quindi, all’apprendimento con le migliori garanzie.

 Bambini che giocano

 In realtà, l’apprendimento è il più bel gioco del mondo. Ed è proprio questa dimensione ludica che viene catturata dai più grandi studiosi, ma non solo da essi dovrebbe essere fatta propria. Anche gli insegnanti migliori hanno ben chiaro questo principio. A tutti sarà rimasto impresso, nell’arco del proprio investimento didattico, un maestro o un professore in grado di suscitare in noi il piacere di scoprire e di imparare. Se oggi molti di noi sono degli studiosi, professori, scienziati, medici, matematici, avvocati etc. etc. con ogni probabilità è proprio ad uno di essi che lo devono. In realtà, tutta la scuola dovrebbe essere fondata sul principio ludico ed “erotico” della voglia di sapere. Per far sì che questo particolare “erotismo” si realizzi, c’è bisogno di un “medium”, l’insegnante e la sua personalità, che svolga il più importante dei collegamenti.

 Insegnante che gioca coi bambini

Il sapere non è un qualcosa di asettico che possiamo caricare in un qualunque mezzo-programma, quasi fosse una siringa con del liquido dentro, e iniettare inopinatamente in qualsiasi mente. Le nuove tecniche di insegnamento e apprendimento a distanza, ad esempio, seppure pregevoli e funzionali ad un certo sistema, non riusciranno mai a sostituirsi al più rilevante dei fattori d’apprendimento: la figura umana dell’insegnante e la sua capacità di saper trasmettere curiosità ed entusiasmo. L’insegnante che sa “giocare” con lo studio e la trasmissione del sapere è il migliore degli insegnanti. È pacifico che egli debba aver un buon bagaglio di competenze ma, in ambito scolastico, non è tanto determinante la conoscenza quanto, piuttosto, la capacità di saperla trasmettere. A tal proposito, l’esempio cui vado sempre accennando è il bellissimo film “L’attimo fuggente”, interpretato da un folgorante Robin Williams.

 Robin Williams in una scena del film “L’attimo fuggente”

In ogni dimensione dell’attività umana, religiosa, artistica, psicologica, scientifica, il gioco esprime il suo considerevole peso. Non è un caso che tutta la cultura mondiale e di ogni epoca abbia preso sempre in considerazione il gioco quale determinante imprescindibile per lo sviluppo. Restando nei nostri riferimenti culturali occidentali, per comprendere quanto il gioco sia sempre stato apprezzato nella sua importanza, troviamo che Eraclito, l’oscuro filosofo di Efeso, in uno dei suoi frammenti ci ha lasciato la frase: “La vita è un fanciullo che gioca”. Lo stesso Platone, nel Simposio, ci consegna l’essere umano quale “giocattolo degli dei” (paignon theou).

 Il Puparo e le sue marionette

Anche le ultime propaggini dell’illuminismo filosofico, con Immanuel Kant nella sua opera Critica del giudizio (1790), pone un pesante accento sulla necessità indispensabile del “libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto”. Friederic Von Schiller conia il termine Spieltrieb per riferirsi all’istinto del gioco giudicandolo cardine dell’educazione e, nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795), auspica l’avvento di una civiltà ludica. Schiller era convinto che il gioco avesse come scopo la riunificazione delle forze divise dello spirito e favorisse l’armonia tra mente e cuore, tra ragione e sentimento. Da qui, è un passo inevitabile il riferimento a Carl Gustav Jung e al suo principio di individuazione che comprende l’integrazione delle parti psichiche separate. Lo storico olandese Johan Huizinga (1938) nel suo Homo Ludens parla di “invariante culturale” per mettere in evidenza quanto il gioco si riscontri in ogni cultura, essendo ad essa preesistente. Il gioco, secondo Huizinga, è una “attività dotata di senso” che nell’essere umano supera la mera reazione fisiologica e approda ad un principio spirituale (e psicologico aggiungerei io). Il gioco, secondo l’autore olandese, produce un “temporaneo annullamento del mondo ordinario” e in questa sua peculiare caratteristica racchiude gran parte del suo “potere”.

 Johan Huizinga

Il filosofo e scienziato sociale francese Roger Callois (1958) categorizza quattro forme del gioco: Agon per la competizione, Alea per la sorte, Mimicry per la maschera e la finzione, Ilinx per la vertigine, nelle quali possiamo far confluire la maggior parte delle espressioni del gioco.

La psicoanalisi è la prima branca della scienza ad esplorare il lato oscuro del gioco come fatto perturbante, e non solo gioioso, per la psiche. La miscela di emozioni che, ad esempio, un giocatore incallito si porta dentro è composta da preoccupazione, ansia, paura, incertezza, brivido del rischio. Il gioco, dunque, è spesso una rappresentazione di drammi interiori e qui il riferimento allo scrittore russo Feodor Dostoevskij e al suo dramma di vita è inevitabile. Se ricorriamo all’accezione del termine gioco intesa nel significato dell’etimo latino “ludus”, cioè: “rappresentazione”, potremo meglio comprendere come, sul principio di gioco quale espressione di problematiche interiori, si fondi anche l’azione terapeutica dello psicodramma di Moreno.

 Psicodramma moreniano

Nel mondo animale i cuccioli giocano e, attraverso il gioco, imparano a vivere, entrano in relazione con i loro simili e modulano l’espressione degli istinti. Anche i cuccioli dell’uomo seguono lo stesso percorso. Con l’aumento delle loro capacità cognitive, però, si verifica il passaggio al significato simbolico del gioco e al suo contenuto profondo. Il gioco cessa di essere una semplice risposta fisico-istintuale e diventa espressione della psiche e, quindi, della totalità dell’essere. È a tutti noto quanto la perdita della capacità di giocare sia espressione del disagio psichico. Questo è valido sia a livello personale: il bambino che non gioca è un bambino sofferente, sia a livello collettivo: una società che ha perso la capacità di giocare è una società sofferente.

 Volti seri di ragazzi

Sigmund Freud, in uno scritto del 1908: Il poeta e la fantasia, pone in evidenza la relazione tra il gioco infantile e la creazione dell’artista. In effetti, la dimensione psichica più creativa è quella che appartiene al Puer.  In Pulsioni e loro destino (1915) designa il termine pulsione di gioco, probabilmente mediandolo dallo Spieltrieb di Von Schiller, e lo aggancia alla dimensione dell’Eros, mentre, per definizione contraria, alla dimensione del Thanatos si può riferire, con ogni probabilità, il non gioco.

  Friedrich von Schiller

L’osservazione di un momento di gioco del nipotino Ernst, che gioca col rocchetto, permette allo scienziato austriaco di descrivere, in Al di la del principio di piacere (1920), il principio di piacere ed il principio di realtà quali fondamenti della psiche e di delineare meglio l’intreccio pulsionale di pulsioni di vita e di pulsioni di morte.

 Sigmund Freud e il nipotino Ernst

Anche Carl Gustav Jung nel suo saggio Determinanti psicologiche del comportamento umano distingue cinque gruppi principali di fattori istintivi: fame, sessualità, attività, riflessione e creatività. All’interno del gruppo attività fa confluire, oltre l’istinto migratorio e il piacere di cambiare, l’istinto del gioco. Un collegamento tra lo Spieltrieb di Von Schiller e l’Archetipo junghiano è quasi automatico.  Potremmo parlare, a questo punto, di Archetipo del gioco? Recenti ricerche sperimentali hanno stabilito inconfutabilmente che esiste una predisposizione psichica all’attuazione di comportamenti ludici necessaria al mantenimento della migliore salute psichica. In questo senso, e seguendo la chiave di lettura junghiana, l’Archetipo è al servizio del processo di trasformazione attraverso il quale la psiche rimodella continuamente se stessa, curando le sue ferite e attuando la sua crescita. Lo stesso Jung nel suo commovente scritto Ricordi, sogni e riflessioni (1961), dettato poco prima di morire alla sua allieva-segretaria Aniela Jaffè, afferma di aver tratto grande giovamento dalla dimensione del gioco in un periodo molto problematico della sua vita (che è durato circa otto anni, n.d.a.).

 Carl Gustav Jung e Aniela Jaffé

Per il bambino, l’immaginario, del quale il gioco si nutre, consente la sospensione temporanea della realtà: è in questo spazio che si colloca il “facciamo finta che”. In tale ambito possono essere vissuti o rivissuti eventi angosciosi, poiché il bambino sa per certo che è possibile interrompere in ogni momento la finzione. Entrando ed uscendo dalla finzione a suo piacimento, il bimbo impara a rappresentare i suoi fantasmi psichici, il suo dolore e consolida al contempo la sua identità. Essa, arricchita dalle identificazioni temporanee del gioco, si sfaccetta sempre più mentre, al suo interno, trovano posto molte immagini. È il dialogo con queste immagini che insegna al bambino a vivere le sue emozioni (ad esempio: la paura) e a prendere dimestichezza con i suoi complessi. In questo tipo di gioco, il bambino rappresenta un destino da comprendere e un progetto da attuare. Un bambino che gioca prepara la sua trasformazione: vera ed ineludibile necessità della vita.

 Bambino che gioca coi colori

Ciascun bambino che gioca interviene sulla tela grigia della sofferenza con i colori terapeutici della creatività e ci narra la storia antica, allegra e penosa, di ogni autorealizzazione.