Ovunque proteggimi
“Sono stufo di correre così appresso alle cose. Cambio lavoro, giuro. Apro una gelateria e mi metto a fare il gelataio! Meglio tentare di vendere i gelati agli esquimesi. Sarebbe più facile.”. Rocco, ancora bofonchiando chiuse la porta della sua agenzia immobiliare, scese le scale del palazzo anni sessanta incastrato nella periferia di Milano, carico degli stessi fiati di vita, di anime speranzose e sconfortate come lui e s’incamminò, coi suoi pensieri, lungo il vialone disordinato, colmo di automobili che sfilavano indifferenti ognuna cercando con decisione la propria traiettoria.
Michela era bella, sedici anni, ed insofferente; di quell’insofferenza ingenua che solo la sua età poteva offrirle. A casa non era mai stata l’attenzione di nessuno. Mamma, divorziata prestissimo, si dava da fare e lavorava come poteva, cambiando attività a seconda delle occasioni che le venivano fornite, suo fratello aveva due anni di più e già se la batteva la sera andando in giro a cercare anche lui il suo “santo graal” per locali e discoteche di periferia. Il padre non si presentava più, nemmeno alle feste comandate. Era così affamata d’affetto Michela che cercava il contatto fisico, lo sfiorare della pelle con gli altri ancor prima del dialogo. Non era molto istruita, non andava bene a scuola, non sapeva parlare bene, ma faceva parlare bene, invece, il suo corpo. La comunicazione, di cui era affamata, la conduceva sulla superficie dell’epidermide, ma avrebbe voluto che qualcuno, dopo averla lambita sulle spalle, sul seno, ballando, con lo stesso impegno, le accarezzasse il cuore. La minigonna cortissima le metteva in evidenza le gambe affusolate e tornite, il corpetto aderente sul busto con la scollatura profonda lasciava intravedere la radice dei seni. Tutto il suo vestire era provocante, ma era una provocazione ancora infantile ed ingenua, troppo sfacciata. Michela voleva colpire l’attenzione dei maschi perché le mancava la conferma al suo esistere e, così vestendosi, credeva di poterla ricevere questa conferma. In effetti, molti ragazzotti le giravano subito intorno quando entrava in discoteca ed anche qualcuno un po’ più grande non le lesinava le sue avances, a volte piuttosto pesanti. Lei ci stava, ma riusciva sempre a defilarsi quando il “gioco” si faceva troppo greve e pericoloso.
Rocco aprì la sua utilitaria, vi entrò e, con gesti nervosi, gettò la valigetta samsonite sui sedili posteriori. Era stata una giornata inutile, senza un contatto passabile che potesse far presagire una vendita imminente. Mise la freccia, attese il momento giusto per immettersi nel flusso del traffico famelico d’urti e s’infilò. Procedeva a singhiozzi, attento ai suoi pensieri di quarantenne solitario e a quel pedone sicuramente in vena di autolesionismo. Frenò bruscamente e di dietro udì una inchiodata a striscio e subito dopo un “Porcoddioooo!”. Scese dall’auto deciso a far valere il suo diritto di redarguire quel cafone bestemmiatore, tanto più che non aveva ragione di permettersi questo sfogo. Si trovò di fronte una giovane donna su un motorino, inferocita, aggressiva e pronta alla lite. “Qualcosa non va?” chiese Rocco con tono ironico. “Brutto testa di cazzo, per poco non mi spiaccicavo sul tuo paraurti!”. L’agente immobiliare Rocco Sannici, restò esterrefatto, ma tentò una replica: “Bene, così ricorderai che la distanza di sicurezza non è un optional, ma un dovere da codice della strada!”. Al che la ragazotta in giubbotto e jeans rispose ringhiando: “Adesso ti gonfio!” e gli andò incontro piuttosto decisa e sicura del fatto suo. Rocco ebbe un moto di timore, pensò al suo vestito nuovo, al casino che sarebbe potuto succedere in seguito alla zuffa, alle noie se le avesse potuto fare del male e, non ultimo, fu il pensiero di potercele prendere davvero. Robusto era robusto, ma non era abituato a menare le mani e, magari, quella valchirietta era una che passava tutto il giorno in palestra ad esercitarsi nelle arti marziali, solo per il gusto di picchiare duro e far fare qualche brutta figura ai maschietti. Rimontò in macchina ed ingranò la prima schizzando via in velocità. Non si sentiva bene però, la stima di sé era andata a cadere sotto il sedile. Ma cosa avrebbe potuto fare, accettare un corpo a corpo con una tamarra senza scrupoli e se poi se la fosse vista brutta a cosa sarebbe potuto arrivare?
Michela, quella sera di primavera, si sentiva più sola che mai. In discoteca con le amiche si sottopose al solito rituale. Si mosse sensuale al ritmo della musica, si fece venire intorno un nugolo di ragazzi, li solleticò, li eccitò e poi se ne andò a sedersi di colpo in un angolo buio del locale. Era pensierosa, ma le sue immagini vedevano transitare nella mente i volti delle sue bambole Barbie che ancora custodiva nella sua cameretta e, soprattutto, un orsacchiotto di peluche, forse l’unico regalo del padre fattole in un Natale ormai molto lontano. Daniele: così si chiamava quel ragazzo dai modi gentili che le si presentò con fare spigliato, ma educato. Fu quella maniera educata di rivolgersi a farle accettare la proposta dei due passi fuori, tanto per levarsi da quel casino e per respirare un po’ d’aria fresca. Non aveva mai sentito nessuno parlarle così bene. La faceva sentire importante quel modo di fare attento alle sue esigenze, non era come tutti gli altri ragazzi che le ronzavano intorno, grevi, rozzi e poveri di spirito. Sentiva che poteva fidarsi, e poi lei portava al collo il talismano che l’avrebbe protetta da ogni male: una medaglietta in silver con l’immagine di San Rocco stampata a rilievo infilata da una catenina d’argento. Gliela aveva regalata la nonna poco prima di morire. Era stata proprio l’anziana donna che le aveva fatto incidere sul retro queste parole: “Rocco ovunque proteggimi”, quasi a volerle lasciare una ultima carezza tutelare.
Rocco imprecò accostando la sua auto sghangherata al bordo del viale. Era come se la vetturetta avesse deciso di non lavorare più, così, improvvisamente, come obbedendo ad un comando imperioso e determinato. Il livello della temperatura era salito improvvisamente e si era accesa la spia rossa del termostato. Dal cofano usciva un vapore denso che andava a confondersi col fumo dei gas di scarico delle altre auto. “Cazzo! Cazzo! Cazzo! Ed ora che faccio?”. Da una parte il vialone male illuminato col suo traffico pericoloso e dall’altra il marciapiede che sfumava in un parco di periferia gonfio d’ombra e di cattivi odori. Aprì il cofano e cercò di capire se il circuito di refrigerazione perdesse da qualche punto. Ma che cavolo ci capiva lui di motori se faceva di mestiere l’agente immobiliare? Si guardò bene dall’aprire il tappo del radiatore. Sapeva che la pressione salita avrebbe fatto schizzare l’acqua da tutte le parti e si sarebbe potuto ustionare. Cercò di smucinare tra un serbatoietto ed un bocchettone, ma presto rinunciò e richiuse il cofano sbattendolo apposta con forza, quasi a volerlo rompere. Si guardò intorno con una sorta di pena nell’anima in cerca di una fontanella, nel portabagagli aveva un bottiglia di plastica, di quelle da un litro e mezzo, dell’acqua minerale Fonte giuliva. Si sentiva un fallito, non serviva proprio a nulla e non era in grado nemmeno di potersi permettere un’auto più nuova. Alzò gli occhi al cielo violaceo e desiderò di rubargli un minimo della sua armonia, niente nella vita gli aveva mai risposto. Il cielo, invece, gli rispose perché, proprio dall’alto del suo spazio siderale, gli inviò in regalo una goccia di merda di piccione che lo colse proprio sul bavero del vestito nuovo. Smadonnando, girò intorno all’auto col capo chino e aprì il portabagagli, si infilò per un piccolo tratto nel retro della vettura e ne trasse la bottiglia di plastica. Cominciò a guardare in direzione del parco sperando di trovare una fontanella.
“Dai, vieni, non aver paura, non voglio farti niente, desidero solo abbracciarti e stringerti a me.”. Le disse col suo modo forbito ed elegante Daniele. Il tono della voce era ancora flautato ed usciva dalla cavità orale come se uscisse da una grotta marina che la faceva rimbombare lievemente assieme allo sciabordio dell’acqua a fare da sottofondo. Il giovane “dandy” la trascinava tirandola per la mano. Lei barcollava un poco sui tacchi troppo alti per la sua età. “Ma no, dove mi stai portando?” Michela cominciava a preoccuparsi, ma aveva timore di potersi mostrare non all’altezza dello stile di Daniele e non voleva che lui pensasse che lei fosse una ragazza di bassa estrazione. Inoltre, aveva urgenza di sentirsi al centro dell’attenzione di qualcuno e stavolta questo qualcuno era pure di un livello sociale superiore al suo. Non voleva fare una brutta figura. Così, per provincialismo, per senso d’inferiorità, perché era un’abbandonica continuò a seguirlo. Daniele la portò nel parco dilatato dalle ombre, maleodorante di orina rappresa e di sterco di cani. All’imbocco del sottopassaggio pedonale che immetteva nel grande giardino pubblico, lui si fermò e l’abbracciò baciandola sensualmente, Michela rispose ai baci, ma quando sentì la sua mano sotto la minigonna che le spostava gli slip in cerca del suo sesso, si irrigidì. “No, ti prego, non mi va!”. Daniele era eccitatissimo, sembrava sotto l’effetto di qualche droga, forse s’era fatto di cocaina e continuò bloccandole con una mano il braccio dietro la schiena, tirandoglielo su per farle male e convincerla a cedere. Michela era ormai spaventata dalla foga del suo “principe azzurro” educato che non le mostrava più alcun riguardo. Si divincolò e fece per andare via da quel tunnel disgraziato. Fu allora che si vide sbarrare la strada da altri tre uomini più adulti di Daniele che le andarono incontro sorridendo sarcasticamente. Il mondo le crollò addosso. D’un colpo solo, la cruda realtà prese forma. La povera ragazza comprese subito in che brutto guaio si era andata a cacciare ed ora era terrorizzata. Mamma gliel’aveva sempre detto di stare attenta, che era troppo bella e che non poteva andare in giro a cercare i ragazzi e a provocarli. Ma lei non aveva intenzione di provocarli per farli reagire così, lei voleva non più di un’attenzione che sentiva necessaria alla sua vita e conosceva solo quel modo di entrare in contatto. Credeva che chiunque lo avrebbe capito e che sarebbe comunque stato alle regole, la violenza non l’aveva mai contemplata davvero perché le era estranea. La madre era una poveretta, ma aveva fatto il possibile per trasmetterle i suoi valori proletari, semplici e veri. La maggioranza della povera gente sa amare e sa cos’è il rispetto, non vuole la violenza, perché è Gesù a non volerla; è lui che lo ha insegnato.
Il primo schiaffo le arrivò in pieno viso e la stordì col suo urto pesante e sonoro. Uno dei tre, quello più alto e robusto, le aprì d’un colpo con le mani la camicetta, strappandogliela di dosso e facendole saltare tutti i bottoni, quegli stessi bottoni, particolari e lucidi, che lei e sua madre andarono a scegliersi nella merceria sotto casa e che la donna le aveva cucito con amorevolezza uno ad uno. Il tipo rimase incantato dal candore della pelle di Michela, si soffermò ad ammirarla e fu colpito dal barlume argenteo della catenina con la medaglietta di San Rocco che le ornava il pallido collo. La prese nella mano e con gesto malizioso le sfiorò il seno, la soppesò e la girò, dietro c’era scritto: “Rocco ovunque proteggimi”. Lui le ripiantò gli occhi di lupo famelico nei suoi e Michela, che si era riavuta dal peso dello schiaffo, fu presa dal panico e tentò di scappare. Riuscì ad uscire dal sottopassaggio e puntò verso il vialone, Gli altri due le si gettarono addosso bloccandola e l’energumeno nel movimento che fece per agguantarla, le strappò la collanina. Se la trovò in mano. Era un oggettino di nessun valore e lo lanciò con gesto rabbioso lontano verso le macchine che, di li a qualche metro, passavano indifferenti sulla grande strada a scorrimento veloce. “Aiuto!”. Tentò di gridare Michela, ma la voce le si ruppe in gola e ne uscì un mugolio che sembrava più il verso di un gatto ferito. Lei voleva le carezze, l’amore, quell’amore, quell’affetto, quell’attenzione dolce che non aveva mai avuto, non voleva la violenza, non voleva la ferocia di uno stupro! Il “lupo” la gettò a terra e le fu sopra aiutato dai suoi complici. Michela percepì l’alito di lui che sapeva di alcol ed il suo respiro affannato dovuto all’eccitazione.
Rocco, che se la stava prendendo con Urano per avergli mandato un segno di merda della sua presenza celeste, vide atterrare davanti ai suoi piedi la catenina con la medaglietta. Si abbassò a raccoglierla e la osservò, osservò il retro della medaglietta e lesse la scritta: “Rocco, ovunque proteggimi.”. Guardò nella direzione da dove proveniva il “prezioso” e udì dei mugolii, come delle grida soffocate, affilò gli occhi, strinse le palpebre e mise a fuoco la scena. Non era possibile! Stavano violentando una donna e proprio lì a poche decine di metri dal marciapiedi. Si sentì in affanno, erano in quattro quei vigliacchi, ebbe paura. Pensò di fare ancora il codardo e di occuparsi dei fatti suoi, pose il primo passo nella direzione opposta, ma fu la scritta sulla medaglietta a fermarlo: “Rocco, ovunque proteggimi.”. Fu preso da un impeto di furore del tutto personale e cominciò a correre verso quel gruppo di farabutti gridando la sua rabbia di frustrazione contro la vita di squallore in cui era costretto a vivere, contro la sua vigliaccheria, contro il mondo di schifo violento ed ingiusto. “Che state facendo, fermatevi! Fermatevi! Ho chiamato la polizia!”. Avvicinandosi distinse benissimo Michela ormai a terra praticamente nuda con uno dei quattro tra le gambe, mentre gli altri due le tenevano le braccia all’indietro e le fermavano la testa. Daniele era immobile, quasi impietrito al lato della scena, in preda al suo voyeurismo da cocainomane. Rocco pensò. La medaglietta aveva scelto lui, non solo perché si chiamava Rocco, ma perché era anche lui un uomo per terra come quella donna e, in fondo, subiva da sempre la stessa ingiusta violenza.
“Che cazzo vuoi?!” lo accolse uno dei due, il più mingherlino, che teneva il braccio destro e la testa di Michela che ora gridava più forte con tutta la voce che aveva in gola: “Aiuto! Aiutami!! Aiutami!!”. “Lasciala stare bastardo che non sei altro!”. “Uè, pistola! Ti puzza di vivere? Fatti i cazzi tuoi e vattene!”. Lo smilzo si alzò e gli andò incontro minaccioso. Rocco, consapevole del fatto che chi mena per primo mena due volte, partì con un destro a slargone, ma lo impostò così come glielo aveva insegnato zio Armando quando era piccolo e giocavano a fare il pugilato. Zio Armando era stato campione lombardo di boxe e gli ripeteva spesso: “Se vuoi che il cazzotto lasci il segno devi stare molto fermo sulle tue gambe, prendi la forza dai tuoi piedi e dalla terra, gira il tronco e appoggia tutto il peso della tua spalla sul pugno.”. Rocco così fece e quello stramazzò per terra dopo la sberla presa in pieno muso. Un colpo da K.O., non c’era dubbio, perché il tipo non accennava né a rialzarsi né a muoversi. Gli altri tre compresero che la notte non avrebbe offerto loro con facilità il divertimento folle che stavano pregustando.
Si organizzarono in silenzio, senza proferire alcun’altra parola, disponendosi ad arco intorno a lui, molto guardinghi però perché avevano visto la fine che aveva fatto il loro degno compare dopo il pugno. Lo temevano, ma non per questo avevano intenzione di desistere; in fondo loro erano tre e lui uno. Rocco si rese conto, nel silenzio di quegli attimi di tensione, dei loro corpi nodosi e tatuati, dei loro muscoli resi duri da imprese criminali dove la forza, e solo quella, contava qualcosa. Erano dei giovani balordi. Gli stessi che lui aveva più volte osservato per la strada o nelle stazioni dei treni, rispondere male alla gente, mettere i piedi sulle poltroncine delle sale d’aspetto, pisciare negli angoli e sui muri infischiandosene di tutto e di tutti. Ogni loro storia era nata e si era sviluppata quasi allo stesso modo, in piccoli, male illuminati appartamenti di periferia, con le bestemmie, le botte ed i vaffanculo a condire le loro giornate tra l’incapacità e l’indifferenza di genitori falliti e già compromessi con la vita. Lui era un impiegato di concetto, seppure robusto e palestrato, restava sempre un uomo di mezza età non avvezzo alla violenza vissuta. Malgrado la situazione fosse molto ansiogena, non poté non rendersi conto della meraviglia del pezzo di cielo primaverile che li sovrastava, dal parco scuro si notavano meglio le stelle ed il loro fulgore allineato. Come sottofondo al calcio che di li a poco lo avrebbe preso proprio sul pettorale destro, s’udiva una specie di ronzio elettrico. Forse i lampioni fiochi e distanti con qualche elemento in corto circuito. Rocco accusò il colpo, ma con rabbia rispose pronto a gamba tesa sul ginocchio di quello che gli stava più vicino. Lo azzoppò, così come aveva imparato a fare durante le partite di calcio quando il gioco si faceva duro e scorretto. L’articolazione della gamba del teppista fletté all’indietro ed il tizio, con urla di dolore, si accasciò tenendosi con entrambe le mani il ginocchio. Intanto Michela si era rannicchiata da una parte e, racimolati i vestiti alla meno peggio, cercò di coprirsi il pube e i seni. Non aveva più la forza di muoversi e le membra se le sentiva di gelatina.
Il più alto e il più grosso fece scattare la lama di un coltello a serramanico e col viso contratto, la mascella serrata per la rabbia, gli si fece sotto. Furono i mocassini a tradire Rocco, proprio quei mocassini di marca inglese che per comprarli aveva dovuto risparmiare qualche settimana. La suola, di ottimo cuoio, scivolò sulla gramigna umida della sera che costituiva la maggior parte dell’erba di quella specie di prato con l’alopecia, fatto a chiazze di terra. La qualità di quello strato di concia gli tolse l’appoggio al piede che avrebbe dovuto spostare il corpo qualche centimetro più il là. Sarebbe bastato qualche centimetro per evitare il colpo e Rocco gliel’avrebbe fatta se avesse avuto ai piedi le sue scarpe da jogging con le suole scavate come piccoli pneumatici da rally. Invece la coltellata lo prese in pieno fegato, proprio sotto il costato destro. Fu un attimo, non provò dolore, ma una sorta di stretta fortissima che gli tolse il fiato. Cadde sulle ginocchia guardando in viso il suo assalitore che per tutta risposta gli sferrò un calcio con la punta metallica della sua Doctor Martens proprio nella bocca della stomaco. Lo sguardo di Rocco non aveva più la luce intensa di chi ha paura e si guarda intorno in cerca di qualcosa a cui appigliarsi, fosse anche quell’assurdo, nitido pezzo di cielo. I suoi occhi roteavano pacatamente, quasi fossero ormai slegati l’uno dall’altro. Senza opporre più alcuna resistenza si accasciò proprio sul corpo di Michela che era rimasta lì, scioccata, immobile ed impietrita a fissare tutta la scena, senza la forza di fare il benché minimo movimento. Lo smilzo, riavutosi dal pugno, gli si avvicinò come una faina e gli frugò all’interno della giacca, sfilandogli il portafogli in vitello stampato tipo coccodrillo.
Lo aprì e gli tolse quei pochi foglietti di cartamoneta allineati per bene in ordine decrescente per importanza. Poi, lo buttò via con un gesto stizzito, quasi irritato perché non erano molti. Il piccolo manufatto di pelle nera atterrò tra le erbacce ed aprì le sue parti come fossero due braccia scure, spalancate, che volessero cingere quell’attimo di vita assurdo e feroce affinché non potesse fare più del male. Alcune foto, di sua madre e del suo unico, piccolo bambino, scivolarono di fuori insieme alla sua sola carta di credito che andò ad infilarsi, rimanendo in verticale, tra due fili d’erba polverosi che stentavano a realizzare, anch’essi, la loro fotosintesi. Il gruppo di balordi se ne andò via in fretta, aiutandosi l’uno con l’altro, ma mantenendo una certa calma incosciente, propria di chi dalla vita non si aspetta più nulla e a cui non frega ormai più un cazzo se, poi, qualcosa succede veramente.
Michela sentiva l’ansimare del pover’uomo su di sé, ma era cosciente che non le stava usando violenza. Il respiro di quest’uomo era ben diverso da quello che aveva provato a portarle via la verginità. Capiva la differenza; capiva che il suono di quell’anelito l’aveva difesa pur non conoscendola, capiva che doveva muoversi ed agire, ora. Nel suo cervello erano entrate in azione le endorfine, certi sedativi naturali che il corpo produce da sé, a compensare il fiotto esagerato delle noradrenaline, sostanze naturali anche queste, ma eccitanti, che l’avevano paralizzata.
Questi elementi chimici le diedero la forza di spostare da un lato, con delicatezza, il corpo di Rocco, adagiandolo al suolo fatto di sterpi, erbacce e terra polverizzata. L’uomo emise un tenue lamento. Michela recuperò la sua rosea borsetta di stoffa da teenager ed estrasse tremante il suo cellulare con le orecchie da coniglietto. Di lì a breve sarebbero arrivati i soccorsi e la polizia.
Nel frattempo, ancora traumatizzata, piangente, incredula per ciò che aveva subito e per la lotta brutale alla quale era stata costretta ad assistere, girava la testa e, con gli occhi lucidi e stupefatti, osservava in giro quel posto squallido che le si sarebbe impresso nella mente per sempre. Ora lo riconosceva! Era il bosco di cappuccetto rosso, di Hansel e Gretel, il bosco delle fiabe, dei racconti che sua nonna le narrava quando era ancora una bimba. Una selva portatrice del male incombente e nel quale non bisognava addentrarsi. Improvvisamente, alla sua destra, gli occhi percepirono un luccichio, un piccolo barlume argentato nella luce fioca e lattiginosa del parco che proveniva da un grosso ramo d’acacia, spezzato per vandalismo e lasciato a terra a marcire. Era la catenina col medaglione sul quale erano incise le lettere: “Rocco ovunque proteggimi.” Si era andata ad impigliare, restando appesa, in un germoglio.
Un piccolo getto di verde, disperato e prorompente come il gesto di Rocco, che pretendeva di allungarsi da quel legno rugoso e putrido, per assaporare il sole. Un insensato sforzo di vita che, pure, il giorno prima non c’era.