Autorità ed autorevolezza
In campo educativo, l’errore che non bisognerebbe mai commettere è cadere nel lassismo totale, teorizzato nei primi scritti del dott. BenjaminSpock, teorie delle quali, quasi venticinque anni dopo, lo stesso Spock ebbe a ricredersi. E non bisogna farsi allettare nemmeno da uno stile relazionale che oggi sembra vada di gran moda: quello della durezza e dell’autoritarismo decisionale. Di questi tempi si sente spesso dire: “I giovani hanno bisogno di autorità; oggi i genitori non hanno più il coraggio di esprimere la loro autorità sui figli”, ed altre assurdità del genere. Quel che è peggio è che tali affermazioni provengono, talora, da personalità del campo psicologico-educativo i cui pareri sono determinanti nelle decisioni di politica rivolta ai nostri ragazzi.
Non credo a questo stile pedagogico.
Si deve compiere una profonda distinzione tra autorità ed autorevolezza. I bambini e più che mai i fanciulli, soprattutto quelli in età puberale, non hanno assolutamente bisogno di autorità, bensì di autorevolezza; e mentre la prima vede di solito un’autoinvestitura o tutt’al più un conferimento da parte di lontane entità burocratiche ed amministrative, la seconda fa capo sempre ad un’eteroinvestitura che deriva da un sociale molto meno burocratizzato e più vicino, più diretto.
I capi delle tribù Sioux delle grandi pianure del Nord America non usavano mai impartire ordini ai loro guerrieri di andare in battaglia, bensì andavano all’attacco dando in prima persona l’esempio da seguire (Hamilton, C., 1950)*. Eppure venivano sempre seguiti, in quanto erano giudicati autorevoli dagli altri guerrieri in virtù della loro coerenza e di quella vita che avevano avuto modo di passare assieme condividendo i tempi e gli spazi della loro crescita di esseri umani (Georgakas, D., 1968)**.
Se vogliamo dai nostri figli comprensione e dialogo, dobbiamo essere noi i primi a dar loro comprensione e dialogo. Ma deve stabilirsi una comunicazione vera, significativa e congruente. E se non stiamo con loro, vicino a loro, disponibili ad ascoltarli, a regredire fino a loro, senza finto interesse, senza invadenza, senza lussuria del sacrificio, il dialogo sarà sempre falso e distante. Allora, bisogna avere il coraggio, nonché la capacità, di tornare ad essere fanciulli, per poter ascoltare le loro angosce, i loro piccoli-grandi drammi, le loro paure, le loro insicurezze. Bisogna avere la forza, nonché il coraggio, di accettare uno scambio ravvicinato con loro, che significa accettare lo scambio ravvicinato con la parte fanciulla di noi stessi o con quello che ne è stato un tempo.
Gli adulti che hanno bisogno di ricorrere all’autorità, o peggio alla violenza fisica, per l’educazione dei propri figli, in genere sono perdenti, anche se all’apparenza mostrano di aver raggiunto quegli status symbols che li accrediterebbero agli occhi dei più ingenui come dei vincenti. Quelli che annoverano un passato fanciullo molto triste e poco esperto dell’emotività positiva, sono quelli che hanno il terrore di essere disobbediti perché hanno il terrore di disobbedire. E qui è inevitabile ricordare il concetto junghiano di Ombra. L’Ombra junghiana è quella parte perversa e trasgressiva di noi stessi che non accettiamo, relegandola e comprimendola in quel magazzino scuro che è il nostro inconscio personale. E’ ciò che non vorremmo essere; è anche male, ma non è solo e necessariamente male; può essere, piuttosto, espressione del primitivo, del primordiale.
Allora, non permettere che la memoria del nostro Io-bambino interno vada perduta e nutrirla, invece, favorendo l’integrazione con l’Io-adulto, è la mossa vincente che ci porterà alla realizzazione della nostra nascita come genitori di noi stessi.
Non c’è bisogno del manuale del provetto genitore per riuscire ad avviare un corretto rapporto con i propri figli: tale manuale del resto non esiste. C’è bisogno, invece, di compiere quello sforzo che porterà alla propria crescita, ripeto, anche attraverso il recupero della dimensione puerile interiore. Non affrontare con coraggio tale sfida di realizzazione proposta ineluttabilmente dalla vita, significa non rispettare se stessi e chi non rispetta se stesso, difficilmente sarà credibile e sicuramente non riuscirà a farsi rispettare dagli altri.
I ragazzi, i nostri figli, ci rispetteranno e ci capiranno nel momento in cui noi li rispetteremo e capiremo, accettando la nostra sfida di realizzazione.
Dobbiamo sporcarci le mani nel fango della vita, lasciarci coinvolgere veramente nelle dinamiche dell’esistenza, nel dialogo con loro, con empatia e con massima considerazione.
Lo sforzo da compiere è quello di scendere dalla “cattedra” egodifensiva di genitori e andar loro incontro con l’idea di dare tutto ciò che è possibile e lecito dare, ma anche con la voglia sacrosanta e vampiresca di prendere da loro tutto quello che potrebbero dare, perché anche loro possono insegnarci molto, soprattutto in relazione alla nostra parte fanciulla rinnegata. Dovremmo smetterla di guardare ai giovani come ad una parte improduttiva della società. Dovremmo rifiutare la logica dello sfruttamento ed ampliare quella dell’investimento spirituale. Dedichiamo alla parte vitale della società tecnicismo e fredda istruzione, offrendo ai giovani un sistema scolastico che continua a rimanere uno sterile rito tecnocratico, sganciato dalla realtà psicologica più interna, quando invece gran parte dello sforzo dovrebbe essere incanalato verso la trasmissione di ideali positivi universali, perseguendo l’educazione con valori meno pragmatici, ma più importanti quali: la sensibilità, l’amicizia della cooperazione, il diritto alla dignità umana, l’attenzione ai sentimenti.
Noi adulti, o meglio la nostra mancanza di fiducia in noi stessi è stato ed è tuttora il problema. L’aver perduto noi per primi la speranza, la nostra profonda disillusione, non ci permettono di essere autorevoli e di avere la stima dei nostri figli.
* Hamilton, C. 1950 Sul sentiero di guerra, scritti e testimonianze degli indiani d’America Feltrinelli, Milano, 1992
**Georgakas, D. 1968 Ombre Rosse, Edizioni – RAI