Tiburtino III
Vanni si svegliò alle cinque quella mattina. Disoccupato, terzogenito di una famiglia meridionale immigrata dal profondo sud, era riuscito a trovare, non si rendeva conto bene neanche lui come, quel lavoretto che gli permetteva di raggranellare pochi spiccioli, giusto per soddisfare le necessità più urgenti.
Si trattava di distribuire, per conto di un diffusore pubblicitario, le figurine delle raccolte degli albums per fanciulli, ovviamente davanti alle scuole. Non era così semplice.
Bisognava offrire in omaggio l’album insieme ad alcune bustine per far sì che i bimbi fossero incoraggiati a continuare la raccolta andandosi a comprare le altre figurine con i soldi strappati alla poca pazienza di papà o mammà. Il momento brutto era quello intorno all’ora d’entrata dove la confusione e la calca raggiungevano il culmine. Qualche volta si era trovato in serio imbarazzo. La spinta che quei piccoli diavoletti tutt’insieme riuscivano a produrre lo inchiodava spesso al cancello o al portone d’entrata oppure addosso al muro di cinta della scuola; e, guarda caso, erano sempre le scuole di borgata le peggiori. I più furbi facevano il giro due o tre volte e Vanni doveva stare attento a non farsi fregare troppo a scapito della omogeneità della diffusione. Più bambini prendevano in considerazione l’album con le prime figurine regalate, più le vendite sarebbero aumentate e con esse la buona salute dell’azienda distributrice. Questo importava molto anche a Vanni il quale, in quel periodo di magra, vedeva nei pochi soldi che riusciva a racimolare, una sua seppur minima traccia d’autonomia.
Quella mattina il boss gli assegnò una scuola al Tiburtino III, uno dei quartieri più poveri e meno provvisti di servizi di Roma. Nessuno degli altri studenti, che lavoravano come lui, voleva andarci, ma Vanni con si intimoriva facilmente e spesso si ripeteva che il diavolo non è poi così brutto come lo si suol dipingere. Prese lui l’incarico. Montò sulla sua vecchia fiat millecinque e partì per il Tiburtino III. Tirava poco le marce per consumare meno benzina, d’altronde a quell’ora così mattutina la guida era agevole e si filava via lisci lisci.
Arrivò a destinazione presto. Si piazzò con la macchina davanti alla scuola e si mise ad aspettare l’orario d’entrata. Si accorse, però, che per la fretta non si era portato nulla da leggere. A quell’ora di mattina, il tempo sembrava non passare mai e fu così che Vanni si ritrovò ad osservare con molta attenzione l’ambiente che lo circondava.
Per la prima volta s’accorse quanto la luce potesse influire sulla percezione della realtà. C’era già passato altre volte da quelle parti, ma non aveva mai fatto caso a quanti segni d’umanità, e di un tipo particolare di umanità, ci fossero.
Panni stesi alle finestre…sempre gli stessi: mutande, calzini, biancheria soprattutto. Non di quella bella che si vede in tivù, però. Piuttosto, era sempre di un tipo comune, bianca, un po’ rattoppata, usurata, ma che ancora non veniva messa in pensione e le si faceva svolgere il “servizio”. Il colore violaceo di quella umida mattina di marzo influiva sul suo umore, si sentiva inevitabilmente giù di corda. Diede un’occhiata all’orologio; macché! Ci voleva ancora più di un’ora alle otto. Sono troppo solerte si sorprese a pensare, ma poi capì che era un modo per mascherare la sua ansia. Questo lavoro era proprio ciò che gli serviva, gli lasciva tempo per tutto il giorno e Vanni ne approfittava per studiare. La lotta per vivere e non soltanto per sopravvivere, come spesso si ripeteva, era dura e l’aveva capito precocemente. Per nulla al mondo avrebbe abbandonato gli studi di medicina perché sapeva, ormai fin troppo bene, che la vera libertà passa obbligatoriamente attraverso una preparazione adeguata ed una buona istruzione.
Era riuscito a terminare il liceo e ce l’avrebbe fatta anche a concludere l’università, ne era certo, era solo questione di tempo e bisognava tener duro perché le difficoltà economiche erano tante. Sulla famiglia non poteva contare, con papà manovale, mamma casalinga ed altri tre fratelli che annaspavano come lui, non c’era di che essere tranquilli. Vanni, però, era una testa dura, la sua intelligenza non sprizzava faville, anzi era piuttosto lento, ma capiva bene ed una volta afferrato il concetto non lo perdeva più, gli rimaneva impresso in memoria per sempre. Aveva le caratteristiche psicologiche tipiche del meridionale: flemmatico, ironico, testardo, orgoglioso, coraggioso ed univa a tutto ciò una forte carica altruistica e d’umanità. Era profondamente leale ed onesto. Un po’ come la sua terra arsa e spaccata dal sole, era anch’egli assetato, ma d’una sete inestinguibile, atavica, una sete d’affetto e d’amore che sembrava non potesse estinguersi mai.
Si era fissato a guardare il riflesso iridescente di una macchia di nafta in una pozzanghera, la strada disselciata e piena di buche di fronte alla scuola, le ombrature di sporcizia sui muri ai lati degli ingressi di un paio di portoni di palazzine dell’edilizia popolare e continuava a pensare a quanto la vita potesse essere distribuita male. Vanni conosceva anche gli ingressi dei portoni dei quartieri residenziali, quelli con i marmi pregiati e la passamaneria rossa che corre lungo tutta la camminata che porta fino alle scale o all’ascensore.
Scese dall’auto e respirò profondamente l’aria fresca ed umida di quella mattinata spettrale. Si appoggiò quasi a sedere sul cofano anteriore della vettura perché emanava ancora un po’ di calore e, con le braccia incrociate sul petto, percepì un brivido che lo scosse per tutto il corpo. Quasi contemporaneamente, alquanto sopra pensiero, lasciò partire un peto corto, ma piuttosto sonoro, quindi si guardò in giro per vedere se qualcuno fosse nei paraggi. Il suo senso del pudore lo sorprese. Fu allora che lo vide arrivare. Il fiocco già slacciato, il grembiule azzurro con delle macchie ad alone proprio all’altezza del petto, il colore del viso bruno e gli occhi neri, profondi, ancora assonnati, ma già vigili.
“Aò, salute e bongiorno!”. Disse il regazinetto.
“Che s’è sentito?”.
“No, mica…n’antro po’ e svegliavi mi nonno ch’è sordo!”.
“E madonna mia! In fondo sono necessità fisiologiche…perché? Tu non le fai?”.
“Sì, avoja! Mi padre dice che so’ peggio delle fialette de carnevale e alle volte, quanno je girà, m’ammolla puro quarche sganassone!”.
Vanni si sorprese ad osservarlo attentamente. Non era il tipo del bimbo medio, troppo sveglio per l’età sua, eppure non doveva avere più di dieci anni. Continuò a studiargli gli occhi, neri profondi, e fu colpito dal cipiglio quasi di sfida, ma che lasciava trasparire un che di spavento misto a diffidenza, come di chi fosse stato tradito ed ingiuriato e non avesse conosciuto altro che tradimenti ed ingiurie nella vita.
“Come mai così presto?”. Vanni lo interrogò con fare distratto volgendo il capo verso la parte opposta a scrutare le ciminiere della Tiburtina.
“E, capirai…mi madre quanno so’ le sette smania, dice sempre che nun vede l’ora che se tojemo tutti dalla palle!”.
“A sì? Perché, quanti siete?”.
“Otto.”.
“Otto, con mamma e papà?”.
“No, con mamma e papà, più er nonno, semo undici.”.
“Alla faccia del caciocavallo!”. Vanni si fermò e non commentò oltre per una sorta di rispetto o di solidarietà che già sentiva di provare per quel fanello. Provava in cuor suo d’appartenere alla stessa “razza”; quella orfana di tutto e che sperimenta l’abbandono, il senso della perdita quasi ancor prima di venire al mondo.”.
“Come ti chiami?”.
“Andrea.”.
“Bello””.
“Bello che?”.
“Il tuo nome.”.
“E perché, a me nun me pare tutto ‘sto bello.”.
“Mah, so che è molto comune, ma il suo significato è bello.”. Vanni ebbe un colpo di tosse e, automaticamente, sputò via il catarro che gli era salito in bocca.
“Troppe sigarette.”. Pensò fissando le iridescenze curvilinee della pozzanghera con la nafta dentro che, all’impatto con lo sputacchio, diede il via ad una serie di piccole ondine.
“E che vor dì Andrea?”. Il regazzinetto si fermo davanti a Vanni con le braccia incrociate.
“E’ una parola greca e vuol dire uomo valoroso, leale e degno d’ogni stima.”.
“Anvedi, aò, nun ce lo sapevo d’avecce un nome così imporante.”. Ed ammiccò con quella faccia da fijo de na mignotta. “E tu come ce lo sai?”.
“Beh, ho studiato no? Come stai facendo tu qui alle elementari, poi quando crescerai le saprai anche tu queste cose.”.
“Eh sì, magara! Io già me so’ rotto de ‘ste bubbolate qui, poi mi padre me dice sempre che appena finisco la scola dell’obbligo, si mai jela farò, me mette subito a bottega.”.
“A bottega e perché?”.
“Perché me devo da ‘mparà ‘n mestiere sinnò, come dice mi padre, faccio ‘na brutta fine.”.
“Ah, una brutta fine… per esempio?”.
“Per esempio come li fiji della Miserocchi, quella der terzo piano, ché due so già iti, se ne so’ annati no?”. E fece il gesto con la mano unendo il medio all’indice, ruotandoli due, tre volte per aria. “E er terzo sta al S. Giovanni ar disintossico!”.
“A disintossicarsi vuoi dire? Cos’è… problemi con la droga?”.
“Mh mh, eroina!”
“Cristo!”. Pensò Vanni e non gli venne più da dire nulla, il cielo si era coperto ulteriormente e da grigio si era fatto plumbeo in sincronia con le ultime parole del bimbo, quasi come se il tutto fosse architettato da una perfetta coreografia. Ci fu una manciata di silenzio, poi il piccolo Andrea, il “valoroso” piccolo Andrea, gli si rivolse.
“Aò, che me lo dai adesso?”.
“Che?”.
“L’album, no?”.
“Ah sì, però non ripresentarti dopo quando ci sarà la calca a prenderne un altro, perché non te lo do. Intesi? Promesso?”.
“Sì, sì, promesso. Aò e so o nun so Andrea, quello là degno de stima e fiducia?”. Il piccolo caricò il tono della voce in modo ironico e gli strizzò l’occhiolino con fare troppo scafato, troppo vissuto per l’età sua.
“Anvedi, che fico, li carciatori della Panini!”.
Vanni, improvvisamente, si sentì morire dentro. “Tiè, prendi, te ne do tre pacchetti insieme all’album, però… però poi non venire di nuovo alla carica perché non te ne do più. Capito?”
“Fico! Sì, sì, vabbé, ho capito. Anvedi che fortuna! Mo che ce lo sa Fabio!”.
Vanni lo guardava ed una profonda commozione mista a rabbia gli mordeva la gola. Provava un moto di rivolta, avrebbe voluto urlare, spaccare tutto, buttar via i pacchi degli albums con le figurine ed andarsene.
“Non è giusto…non è giusto.”. Mormorò.
“Che? Aò, ma che te senti male?”. Gli fece il regazzinetto intuendo un certo pallore sul suo volto.
“Eh? Ah, no, no, niente!”.
In quel mentre le sirene delle fabbriche della Tiburtina intonarono il loro lugubre ululato e Vanni si riebbe; osservò in giro l’ambiente, si era improvvisamente animato e non se n’era accorto. Uomini col volto tirato, chiusi nei loro giaccotti di stoffa tipo militare o confezionati in “pura, finta similpelle” si avviavano al lavoro, sistemandosi sulla spalla la tracolla di tela gommata, con la sigla della compagnia aerea stampata sul lato più lungo. Dentro c’erano sistemate le loro cose: qualche attrezzo, un panino con la mortadella, forse un cambio di biancheria.
Seguì con lo sguardo in particolare un gruppo di quattro o cinque che si diresse proprio lì, dall’altra parte della statale. Il grande portone della fabbrica aprì i suoi battenti e li ingoiò tutti, uno dopo l’altro. Vanni ebbe di nuovo un brivido e fu scosso da due o tre spintoni piuttosto energici. D’improvviso fu il chiasso. Era letteralmente circondato da un mare di ragazzini, vocianti, urlanti: “Io, io, a me, a me!”.
A fatica riuscì ad organizzarsi, ad aprire il cofano del bagagliaio, a tagliare la rafia dei pacchi, ad unire ad ogni album un pacchetto di figurine e a darne uno per ogni bambino. Nel momento più critico fu sospinto verso il muro di cinta della scuola da quella piccola masnada indemoniata e per un attimo si sentì letteralmente perduto. Capì cosa fosse il panico, non faceva altro che sfilare albums e pacchetti di figurine e darli via, ma la pressione di quella massa di fantolini non diminuiva. Improvvisamente, mentre a fatica stava tagliando un nastro di rafia dell’ennesimo pacco di albums, tra la calca lo vide ripresentarsi. Il suo volto scuro, i capelli scarmigliati, il fiocco slacciato e sul grembiule, all’altezza del petto le grosse patacche di unto. Con lo sguardo supplichevole Andrea lo guardò.
“E dammene ‘nantro, a te che te costa?”.
Si fissarono per alcuni istanti, Andrea con le sopracciglia rivolte all’ingiù, la voce querula, Vanni con gli occhi attoniti, fissi su quel viso creolo.
“Tiè, piglia!”. E gli allungò altri tre pacchetti di figurine. Andrea fece per prenderli, ma gli svanirono dalla mano. Non capì subito. Vanni aveva ritratto il braccio, mantenendo le bustine tra le dita.
“Studia!”. Gli disse in modo imperativo. Continuarono a guardarsi per qualche altro secondo, poi Vanni riallungò il braccio e, questa volta, gli diede i pacchetti. Lo vide allontanarsi, saltando di gioia, difendendo il suo “bottino” dall’attacco degli altri ragazzini che gli urlavano dietro: “Che culo! Che bucio!”.
Il suono squillante della campanella ebbe il potere di allentare la stretta di quella combriccola scatenata e Vanni poté finalmente rifiatare. In pochi istanti, così com’era cominciata quella sarabanda finì. Il portone della scuola aveva inglobato il suono delle ultime grida dei bambini. D’improvviso fu il silenzio. Vanni si accinse a ripartire verso casa; chiuse il cofano del bagagliaio del vecchio millecinque e si diresse allo sportello dalla parte della guida, lo aprì e, prima di entrare, diede un ultimo sguardo all’edificio scolastico.
Lo rivide ancora. Era lì, seduto al suo banco proprio all’altezza della finestra, credette che stesse guardando verso di lui, accennò con la mano un gesto a mo’ di saluto. Andrea lo vide ed agitò energicamente il braccio da una parte e dall’altra, saltando sul banco finché la maestra non lo riprese. L’insegnante lo fece sedere ed osservò anche lei fuori dalla finestra. Vanni, allora, entrò in macchina, mise in moto e, ancora sorridente, ingranò la prima puntando verso il semaforo che immetteva sulla Tiburtina. Aspettò pensieroso il verde e, quando fu il suo turno, si tuffò nel tumulto del traffico della consolare, nella direzione che portava verso il centro città.
(Al piccolo Gaspare).