LEGENDA DI NATALE*
Quand’ero bambino, erano la luce dell’albero di Natale, la musica della messa di mezzanotte,
la dolcezza dei sorrisi a far risplendere il regalo di Natale che ricevevo.
(Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)
Bruna era seduta sulla Frau in cuoio e teneva in mano un’agendina di cartoncino laccato, una di quelle che andavano tanti anni fa, illustrata da Deborah Jones. Era la sua agendina delle elementari che continuò ad usare nel tempo fino all’età adulta. La prima di copertina mostrava tre orsetti in piedi, due maschi ai lati ed una femmina al centro. L’orsetta teneva le mani in mano, l’orsetto di sinistra stringeva nella zampetta destra uno scopettone con il ciuffo rivolto verso l’alto, quello di destra aveva appeso a manca un secchiello con della vernice rossa ed un pennello infilato dentro. Tutti e tre sorridevano e fissavano dritto l’osservatore. L’aprì ripetutamente a casaccio: nome, indirizzo, numero di telefono. Mamma, Papà, Nonni, in prima pagina al di fuori dell’ordine alfabetico della rubrica, poi Alessandro, Alice, Angela, Beatrice, Benedetto, Claudio, Carlo, Daniele. Il tempo che passa lascia spesso un sapore piuttosto amaro e Bruna si sentiva la lingua e la bocca impastate dal fiele.
Sola, senza il conforto di una vera amicizia, a cinquantacinque anni si ritrovava spesso a pensare al passato, lasciandosi avvolgere da un velo di malinconia. Ormai era ricca e potente, aveva sfondato, come si usa dire. L’alta finanza era il suo campo. A tutti i curiosi che ponevano le domande più indiscrete circa l’accumulo della sua ricchezza, rispondeva a tono, a volte esagerando con i termini tecnici per tagliare corto, certa che nessuno avrebbe mai potuto seguire i suoi scaltri impapocchiamenti finanziari.
Le persone ciarliere del suo ambiente la interrogavano non tanto per farsi gli affari suoi, ma con quel perfido, ottuso filo di speranza che consisteva nella possibilità di riuscire a carpirle un seppur minimo particolare, un suo piccolo segreto che li mettesse sulla strada giusta per il successo economico. Era gente munifica nel dispensare elogi su ogni aspetto o particolarità degli altri, anche i più indubbiamente sgradevoli, se solo il lavoro di costoro avesse stretta, sicura attinenza con la capacità di produrre denaro in gran quantità. Persone dalle quali Bruna si teneva a debita distanza, soprattutto quando si trattava di uomini. Li percepiva anche a metri in lontananza, si avvicinavano con nonchalance, con un sorrisetto di disponibilità che, invece era di insincerità. Supponeva cosa stessero pensando.
Lei, una donna con tutto questo successo, bella per giunta, in un campo lavorativo tipico del genere maschile? L’accostamento strideva immediatamente. Volenti o nolenti, però, quella masnada di uomini (perché di una ghenga di gente senza scrupoli si trattava) con vestiti sartoriali e camicie e cravatte da centinaia di euro, dovettero accettarla nel loro giro. Bruna, oltre ad avere un curriculum formidabile, con laurea in economia cento dieci e lode, tesi su un algoritmo ad apprendimento per rinforzo applicato al trading finanziario, aveva anche un intuito straordinario. Quando chiunque le si rivolgeva parlando, gli leggeva attraverso la maschera del viso, carpendogli la sua verità in men che non si dica. Questo era il suo vero talento che aveva affinato negli anni. Sapeva ascoltare e mentre uno le parlava, lei stava già avanti di dieci mosse, come nel gioco degli scacchi nel quale, nemmeno a dirlo, eccelleva. Quando era più giovane aveva avuto molte richieste di matrimonio, ma le aveva rifiutate tutte.
Gli uomini, soprattutto quelli di successo, anche se di dubbia origine, non sopportavano di avere una donna intelligente e preparata al loro fianco. Uno, un certo Daniele, le propose di sposarlo. Avvocato di grido, figlio di un Magistrato della Corte costituzionale, la presentò alla famiglia. Ciò che la fece recedere immediatamente fu un parlare di lui che le proponeva una specie di contratto prematrimoniale nel quale era previsto perfino che poteva comprare tre vestiti di alta moda all’anno. Raccontare come Bruna “licenziò” Daniele è uno spasso. Usciti dall’”udienza” genitoriale, una volta in auto e giunti davanti alla piccola pensione dove lei momentaneamente abitava, prima di scendere ringraziandolo per averla riaccompagnata, gli si rivolse con una calma placida:
- Sai Daniele, non ho parlato davanti ai tuoi per delicatezza, ma visto com’è andato l’incontro, indubbiamente chiarificatore, almeno per me, posso suggerirti… di andartene a fare in culo, tu e i tuoi genitori. Tanto sono sicura che la strada la conoscete a memoria!”. –
Uscì decisa e svelta con la sua elegante silhouette dalla berlina di lusso a tinta scura e sedili in pelle chiara, una Mercedes 350 SL, ça va sans dire, e dopo tre passi risoluti sparì dentro il portone del vecchio edificio con la facciata scrostata mentre Daniele, attonito, la inseguiva con lo sguardo. Seppe, qualche anno più tardi, che l’avvocato sposò una pretendente che sembrava quella adatta sia a lui sia ai suoi genitori, ma che invece era una furbetta di tre cotte. Dopo avergli dato un figlio, chiese il divorzio per incompatibilità di carattere e violenza psicologica sistematica. Andarono in causa e, il grande legale nonostante la sua preparazione e le sue conoscenze, la perse; ovviamente rimettendoci quasi la camicia.
Dalla finestra della villa di Cortina di proprietà dei genitori, Bruna poteva vedere fuori il paesaggio. La neve cadeva lieve. Era in perfetto orario rispetto al Natale e, nonostante fosse tardi, un chiarore d’aria limpida scoloriva l’oscurità. Quella vigilia di Natale decise di passarla lì, lontano da tutti, rinchiudendosi in quelle stanze che la videro bambina, adolescente e poi ragazza. Amiche e amici veri non ne aveva più o, almeno, ne aveva perduto le tracce e, nei confronti dei conoscenti che erano tanti e petulanti, il gioco migliore era convinta fosse quello di far perdere le proprie, soprattutto all’avvicinarsi delle festività natalizie. Ormai, una coltre di velluto bianco, finissimo, vestiva, ondulandola, ogni cosa. Anche le brutture degli ultimi scempi urbanistici riuscivano ad acquisire, grazie alla magia della neve, una loro bellezza naturale. Nulla superava in fascino, ne era convinta, la quiete di una notte di neve. Il buio aderiva ai vetri delle finestre con la sua pressione fatta di ricordi, col suo colore violaceo. Alcune folate di vento gelido, di tanto in tanto, facevano bofonchiare i lignei, saldi infissi a chiusura ermetica che garantivano la tenuta del tepore interno.
La relazione con suo marito era cominciata per caso, esplodendo come un movimento sismico e disponendosi, tal quali i guasti che esso procura, in anelli concentrici. Dal sussulto concentrato e violentissimo al cerchio più vasto e ondulatorio, il loro sentimento sarebbe durato molto più a lungo se non fosse intervenuta la morte a porre fine a quello sconquasso emotivo. Nei primi tempi del dolore, ripiegata su se stessa, nell’elaborazione del lutto, non riusciva più ad avere una visione oggettiva della vita. Ora, invece, a distanza di quattro anni, aveva preso gusto ad osservare l’esistenza con un certo distacco, quasi se ne sentisse già chiamata fuori. Scrutava le persone senza farsene accorgere e partiva coi suoi giudizi interiori, sfrondando tutto il superfluo di cui esse erano cariche. Alla fine, veniva fuori una definizione così scarna ed essenziale di esse da rasentare, il più delle volte, il patetico se non, addirittura, il ridicolo. La stessa cosa le venne automatica di fare nel leggere i nomi contenuti in quella agendina, ma il risultato non fu lo stesso. Diversamente, provava per quelle persone un che di amorevole che la spingeva fuori da ogni critica caustica e cattiva. Per ogni numero di telefono s’accendevano nella mente immagini, si riproponevano visi, situazioni dolci o drammatiche. Giovanni, un amico di liceo gli apparve proiettato sul vetro della finestra. Quasi come le chiedesse se si ricordasse di lui, il ragazzo le sembrò che parlasse.
– Certo che mi ricordo di te. –
Bruna si sorprese a rispondere, proferendo tra sé e sé.
– Eravamo diciottenni e spensierati, fino al giorno in cui ti diagnosticarono quel sarcoma alla coscia destra, caro Giovanni. Ricordo la tua generosità, il tuo saper essere amico, i tuoi capelli biondi, la tua allegria. Tua madre mi implorò di accompagnarti fin nelle Filippine, dai guaritori, in un ultimo disperato tentativo di strapparti alla morte. Assistetti alla farsa dell’intervento dei guaritori fatto con le mani e mi tormentano ancor ora le menzogne che ti dissi nel tentativo di rassicurarti. Te ne andasti nel fiore degli anni e di te m’è rimasto il tuo sorriso giovane e allegro. Chissà oggi se saremmo stati ancora amici. Probabilmente sì. Le amicizie buone, sviluppatesi in giovane età, sono quelle che rimangono per tutta la vita, se essa lo concede. –
Continuò a sfogliare le pagine di quel piccolo quadernetto, quasi fosse uno scrigno dal quale tirare fuori emozioni, sensazioni, memorie. Le comparve il volto di Carlo. Ce l’aveva ben presente. Un ragazzo dolce, ingenuo, di famiglia modesta e molto bello. Bruna aveva un anno in più, ventiquattro, e al confronto si sentiva più scafata. Era in un periodo di disimpegno con le cose della vita. Aveva avventure amorose, ma non voleva legarsi a nessuno e terminava sempre i rapporti con un fare secco e tranciante. Le reazioni erano delle più disparate, ma quasi tutti mostravano rabbia e risentimento.
- Stronza! –
- Sei un pezzo di merda! –
- Vaffanculo, ne trovo cento meglio di te! –
Quando chiuse con Carlo, lui non ebbe reazioni scomposte. La fissò immobile con gli occhi lucidi come per dirle perché mi stai facendo questo, prima di girarsi ed andarsene. Il volto di Carlo la perseguitò per tanti anni. Solo col tumulto degli impegni della vita riuscì ad accantonarlo nel magazzino buio della mente dedicato al passato. Ad ogni modo, in momenti di quiete, spesso risbucava fuori e la tormentava perché dentro di sé sapeva che aveva fatto una sciocchezza a trattarlo così. Non avrebbe dovuto lasciarlo andar via. Era intelligente e sensibilissimo e le sue parole erano profonde per la sua età, oggi se ne accorgeva. Le diceva, durante le loro passeggiate, quando lei s’annoiava un po’:
- Bruna, ti rendi conto che questi momenti non torneranno più nelle nostre vite? Ora siamo giovani e relativamente affrancati da responsabilità gravi. A parte studiare non dobbiamo fare altro e questo tempo libero ci sembrerà un paradiso quando saremo inquadrati nei nostri ruoli sociali, con i nostri impegni pesanti e carichi d’ansia. –
- Sì, vabbe’. Gli rimandava lei. Ma non possiamo fare qualcosa di più interessante? –
- Più interessante che stare con me, avere la possibilità di scambiarci idee, opinioni, fantasticherie sul nostro futuro? Queste camminate, Bruna, le ricorderai e le rimpiangerai. Non ne avremo più, perché non saremo più così svincolati e spensierati. –
Oggi capiva che aveva ragione, ma allora era decisamente annoiata e avrebbe voluto qualcosa di più coinvolgente e attivo. A volte non vedeva l’ora di tornarsene alla sua residenza. Viveva il momento dell’arrivederci come una liberazione. Rimontava sulla sua Alfa Romeo spider 1300 rossa, comprata a rate con i primi soldi guadagnati, e filava via, ma non a casa. Puntava decisamente verso il litorale dove amava osservare il volo dei gabbiani o si dirigeva verso il passo di montagna tutto curve, dove poteva mettere alla prova la tenuta di strada della sua piccola “belva” e la sua abilità di pilota. Trovava quei momenti più rigeneranti che stare insieme con Carlo. Le piaceva la fuga in solitaria verso la natura, la sfida, il mettere alla prova la sua capacità di guida. Insomma, si divertiva di più così che con lui. Era molto superficiale perché era giovane e la vita non l’aveva ancora forgiata per benino.
Bruna continuava a pensare e a guardare la finestra dopo aver rintracciato un altro numero telefonico col nome e cognome. Quell’infisso a doppia anta sembrava ormai lo schermo di un grande televisore dove si materializzavano immagini di volti, ricordi, situazioni. Improvvisamente lesse: Fabrizia Pansa e apparve sul vetro della finestra una scena. Era una compagna delle medie che tentò di tirarle un bidone. Voleva venderle delle foto che sosteneva essere pornografiche, ma che di sconcio non avevano proprio un bel nulla. Gliele faceva intravedere e non le scopriva del tutto. Voleva spillargli una mille lire. Capirai, a quei tempi era una certa sommetta per una ragazzina di tredici anni. La curiosità era tanta, ma anche l’intelligenza lo era. Allora Bruna la giocò dicendole che gliene avrebbe date duemila se avesse trovato almeno una foto interessante. Fabrizia, che non era una cima, accettò. Bruna se le guardò tutte con fare flemmatico e poi le confermò che non ce n’era una avvincente più di tanto. Allora, Fabrizia, capito il trucchetto, cominciò a bullizzarla. Non la lasciava più stare finché una mattina, durante l’intervallo, arrivarono allo scontro fisico. Bruna era più mingherlina rispetto alla sua rivale, ma non si tirò indietro. Cominciarono a darsele di santa ragione, avvinghiandosi, strattonandosi, tirandosi i capelli e prendendosi a graffi e a calci, tra le urla delle compagne che facevano il tifo e incitavano chi l’una chi l’altra. Quello fu il momento della sua vita in cui capì che agli altri non andava proprio giù di essere presi in giro. Dovettero intervenire prima il bidello e poi il professore d’italiano per dividerle. Interrogata dal professore sul perché si stessero picchiando così ferocemente, Bruna sostenne una versione che, ovviamente, non faceva cenno alle foto pornografiche, ma che riferiva di un insulto lanciato al suo attore del cuore. Che situazione!
Sul vetro della finestra, scorrevano quelle immagini come sul set di un film. Bruna sorrise. Sfogliando le pagine, arrivò alla lettera I …Inciampo e cambiò subito espressione divenendo più cupa. Era il soprannome di un povero ragazzo del liceo, sezione D. La sua caratteristica era di incespicare sempre con i piedi da qualche parte o di andare a sbattere contro qualcosa. Il poverino aveva avuto la poliomielite da bambino e, quando camminava, trascinava come poteva la gamba sinistra. Bruna non lo prendeva mai in giro per questo suo difetto, anzi cercava di proteggerlo perché, proprio a causa della sua condizione deficitaria, era una persona sensibile e dolce.
- Ti ricordi anche di me? –
Un’immagine di Inciampo si compose anch’essa sulla finestra. Il suo volto tra l’adolescente e l’uomo formato si definì perfettamente.
- L’hai combinata grossa, Inciampo. Io ho tentato di tutto per dissuaderti, per aiutarti, ma tu niente, cominciasti ad assumere cocaina tanto per tirarti fuori dalla tua sofferenza esistenziale di disgraziato, sfavorito da madre natura. Così, dicevi. Nessuna ragazza voleva avere a che fare con te. Nessun amore avrebbe mai potuto profilarsi all’orizzonte e tu, quasi come una valvola di sfogo, un rimedio al tuo dolore, imboccasti quella brutta strada. Arrivasti a farti di tutto, eroina, crack, anfetamine. Ti riducesti una larva in pochi anni finché, un giorno, non giunse la notizia che ti trovarono morto in una fiat cinquecento, infrattata nel canneto attorno al cinodromo con la siringa e l’ago ancora in vena. Fu una notizia che mi toccò l’anima. Forse sono stata l’unica a piangere per la tua fine. Neanche uno s’interessò alla tua morte. Il tuo passaggio nella vita fu inutile, non servì a nessuno, anzi danneggiò molti e i tuoi genitori, perfino tua madre, vissero l’evento come una liberazione, dopo tutto ciò che facesti loro penare.
Bruna andò avanti così per un bel po’. Sfogliava le pagine con commozione. Ad un tratto, però, lo sguardo s’impietrì sul numero di telefono di Emilio, suo marito. Era il numero di quando erano ancora fidanzati e lei viveva con i suoi. Ebbe un sussulto allorché lentamente girò il capo verso la finestra e lo vide lì a sorriderle. Ormai le lacrime le scendevano sul viso, senza possibilità di contenersi. Sola, in quella grande casa dove avevano trascorso tanti giorni in allegria e spensieratezza.
- Non essere triste Bruna. – Emilio sembrava parlare con voce suadente. –
- Io sapevo tutto e non ti ho mai detto nulla per paura di perderti. –
Lo aveva sempre sospettato che Emilio avesse saputo di quel suo amore illecito, passionale, quasi incontrollabile che ebbe per Sandro. Una storia sbagliata, nata per caso, per la frequentazione quotidiana dovuta al lavoro. Il bel Sandro era un consulente finanziario molto capace dal carattere guerriero. Single, fiero, orgoglioso, con un senso della dignità elevatissimo. Era molto stimato nell’ambiente lavorativo perché davvero competente. Non dava confidenza a nessuna e a quelle che ci provavano spesso faceva fare delle brutte figure. Bruna forse entrò nelle sue attenzioni proprio perché non fece mai alcuna avance né una battutina allusiva. Tenne con lui un comportamento corretto seppure amichevole. Sta di fatto che, stranamente, fu lui a prendere l’iniziativa. Sulle prime, Bruna declinò con eleganza, ma non capiva perché, nonostante fosse innamorata persa di suo marito, le attenzioni di Sandro le facessero effetto. Forse perché nel rapporto “fusionale” che aveva con Emilio i confini del suo Io si erano rarefatti, forse perché proprio a causa di questa sensazione aveva l’impellenza di rimarcarli e di ridefinirli. Comunque sia, avvenne che un giorno accettò un suo invito a cena e da lì cominciò la loro rovente storia d’amore. Si ripeteva spesso che non poteva durare. Era piena di sensi di colpa. La vertigine di quella passione le insegnò per sempre che i sentimenti umani sono fragili e che non c’è nulla di più incerto.
- Emilio, perdonami. –
Si ritrovò a parlare da sola con lo sguardo rivolto alla finestra. Il volto di Emilio che a momenti appariva più definito, a momenti no, le rispose.
- Bruna, non piangere. Io non ce l’ho mai avuta con te. Ero cosciente che ti avevo trascurata a causa del mio lavoro, ma l’impegno di un anestesista in un ospedale pubblico tu sai che è fagocitante. A quel tempo, poi, non c’era ricambio generazionale e a fronte di molti pensionamenti pochi furono i rimpiazzi. Lavoravo come un pazzo per assicurare la salute altrui e non mi sono troppo preoccupato della mia. –
Emilio, in effetti, pur avendo intuito che ci fosse qualcosa che non andasse bene tra loro, non affrontò l’argomento, sicuro che tutto sarebbe passato perché troppo forte era il loro amore. E così fu.
Quando Bruna troncò la relazione col bel Sandro, nel pieno del suo stile deciso e asciutto, egli non batté ciglio. Troppo intelligente e sensibile, capì la situazione e, seppure con uno sguardo triste, le diede un ultimo bacio sulla guancia, si alzò dal tavolino del bar del centro storico in cui s’erano dati appuntamento e sparì per sempre dalla sua vita.
- Emilio, non so cosa mi prese in quel periodo. Io ero innamoratissima di te, ma forse l’età che avanzava a grandi passi, i miei 45 anni, forse la paura d’invecchiare e di non piacere più, forse l’angoscia per la vita che scivolava come sabbia tra le dita, accettai di vivere quella relazione.
Il capo di Bruna era piegato verso le sue ginocchia, le mani giunte in grembo, non guardava più la finestra, piangeva a lacrimoni per la vergogna che provava ancora e perché immaginava che il volto d’Emilio la osservasse.
- Bruna, io non ti ho mai condannata per ciò che hai compiuto. La vita è un affare così difficile e pesante da sopportare. Fui felicissimo quando mi accorsi che eri ridiventata quella di prima, che eri tornata a me. Capisci?
Tirò su il capo per osservare la finestra quasi col timore di riscontrare il viso di Emilio, ma non c’era più. Allora il suo pensiero volò al momento in cui si conobbero. Lei stava litigando per strada con l’ennesimo uomo, conosciuto da poco, che credeva di poterla controllare e irregimentare in un ruolo per lei insopportabile.
- Sono una donna libera e autonoma, Stefano, lo capisci? –
- No, non lo capisco. Se stai con me devi fare come ti dico io e non mi va che tu prenda iniziative slegate senza consultarmi. Tiri dritto troppo di testa tua.
- Allora basta! Esci dalla mia vita e non farti più sentire né vedere, capito?!
Stefano a quel punto, persa la pazienza, le si avvicinò come per prenderla a schiaffi, lei indietreggiò intimorita aspettandosi il peggio quando una voce chiara e forte intervenne a salvarla da quella situazione che si stava mettendo piuttosto male.
- Qualcosa non va, signorina?
Era Emilio che, dopo averla fissata, osservava con sguardo di sfida ammonitrice Stefano.
- Di che t’impicci tu? Fatti i cazzi tuoi. – Gli rimandò Stefano.
- Questi sono cazzi miei! – esclamò deciso Emilio, facendoglisi incontro e fissandolo arcigno dritto negli occhi.
Stefano, che non era certo un uomo imponente, alla vista di Emilio che invece lo era e colpito dalla determinazione di quell’uomo, desistette e mandando Bruna a quel paese, se ne andò imprecando e insultandola con tanto di parolacce a lei dedicate: puttana, troia e via dicendo.
- Tutto bene? – le si rivolse l’estraneo salvatore con un sorriso.
- Sì, sì, tutto bene, grazie per il suo intervento, me la stavo vedendo brutta. –
- Eh, sì. L’avevo intuito. Comunque, ha ragione basta con Stefano, piacere: io mi chiamo Emilio. –
La colpì il suo accento napoletano, a lei che era di Bergamo suonò come una provocazione. Non aveva mai sopportato i napoletani, giudicandoli dei terroni, ma conoscendo Emilio si dovette ricredere. Lui era di quello strato sociale napoletano gentilizio, raffinato nei modi e nel vestire. La prima impressione che ebbe fu che fosse un nobile, un principe. Questo suo modo signorile di trattare e di rivolgersi a chiunque l’affascinò senza mezzi termini.
Nacque così la loro storia d’amore che confluì nel matrimonio. Un matrimonio felice perché Emilio, un medico anestesista rinomato, non aveva alcun atteggiamento d’imperio su di lei. Anzi, era contentissimo di poter stare accanto ad una donna in gamba, realizzata, intelligente e sensibile. Lui non era da meno e lei lo stimava con la stessa forza. Quanti bei momenti passati insieme. Emilio, come Bruna, era molto preso dal lavoro, ma quando entrambi finivano si dedicavano completamente l’un l’altra. Organizzarono vacanze bellissime alla scoperta di Nazioni, città, luoghi, posti magnifici e intriganti. Non ultima per importanza fu un una settimana dedicata alla bella città di Napoli. Bruna non se lo sarebbe mai aspettato che il capoluogo campano del colera, della confusione, dell’inganno e della malavita organizzata potesse essere così bella e accogliente. Emilio fece, ovviamente gli onori di casa. Scoprì allora le ville vesuviane, villa Ginestra dove soggiornò e compose tanti suoi lavori il grande poeta Giacomo Leopardi, la reggia di Capodimonte, le chiese, il Cristo velato della cappella Sansevero, i dipinti di Caravaggio, dello Spagnoletto, i bellissimi palazzi nobiliari, i musei custodi di tante opere d’arte, quella grande arte che diversi secoli di cultura, ma soprattutto il periodo borbonico, lasciarono come eredità al mondo.
Morì Emilio, dopo vent’anni di vita felice insieme, con pochissime battute d’arresto che in una coppia inevitabilmente avvengono. Tutte superate con l’intelligenza e il rispetto reciproco oltre che per una vera attrazione fisica.
- Il tuo piacere è il mio piacere. –
Emilio le ripeteva sempre quando facevano l’amore. E lei non aveva mai provato un desiderio così bruciante e duraturo. Non ci fu mai una défaillance, non persero mai un colpo in tanti anni d’amore. Nonostante tutto non riuscirono ad avere figli. Non vollero mai fare degli accertamenti per capire da chi e da cosa dipendesse. Decisero di accettare ciò che madre natura aveva loro riservato.
Se ne andò Emilio, ma non per sua scelta. È vero che si trascurava molto per dedicarsi al suo lavoro e a lei, sua moglie. Medice cura te ipsum, le ripeteva lei in continuazione.
- Emilio, fatti un check up ogni tanto, tralasci troppo la tua salute. –
- Sì, sì, domani giuro che in ospedale avvio tutto e mi faccio un tagliando completo. – Le rispondeva col suo solito sorriso benevolo.
Lo trovarono accasciato nella stanza dei medici del suo reparto. Aneurisma aortico addominale fu la diagnosi e a nulla servirono i tentativi di rianimarlo da parte dei colleghi disperati che lo amavano sinceramente.
- Mi hai lasciata sola, Emilio, sola. Sono quattro anni che vago per il mondo col pensiero di te.
- Mi dispiace, Bruna, mi dispiace. Non disperarti, sono ancora con te, nella luce del pomeriggio che invade la nostra camera da letto, nelle cose che abbiamo conquistato insieme, nell’ombra della sera, nel buio della notte. Fermati e ascolta con attenzione, lì mi troverai.
Così era, in realtà, e quella Vigilia di Natale ne era la conferma. Lei lo vedeva proiettato dai suoi ricordi sul vetro indaco della magica finestra. Tra non molto sarebbero giunte le ventiquattro e la grossa pendola ottocentesca dell’ingresso avrebbe battuto i suoi colpi.
Ogni nome, ogni numero di telefono, in quell’agendina racchiudeva una storia. Bruna, sfogliandola, entrava in una e ne usciva per immergersi in un’altra. Così andò avanti in piena solitudine fino alla mezzanotte.
- Non mi lasciare Emilio, non te ne andare, resta ancora un po’ con me. Mi sento così sola. –
Piangendo si ripeteva queste parole. Per lei la vita non aveva più senso. Pensò alla sua morte, considerò di andarsene dalla vita. Si sentiva sconfortata e mentre richiudeva l’agendina, la prima pagina s’oppose alla chiusura. C’era scritto: mamma e papà, col numero ben chiaro segnato accanto. I suoi erano anziani e conducevano una vita ancora accettabile in autonomia e in amore. Le volevano un bene immenso, non solo perché era la loro unica figlia, ma perché la stimavano. Erano i migliori fans che aveva.
Improvvisamente, la pendola cominciò a scandire i battiti: beng, beng, beng, uno, due, tre…
Bruna sedeva sulla bella poltrona in cuoio con le spalle rivolte al largo televisore da 52 pollici e contemplava la finestra che dava sulla vista esterna dell’innevato paesaggio cortinese. Inaspettatamente, apparve, attraverso quel grande infisso, la slitta di Babbo Natale che volava per aria tirata dalle renne, accompagnata dalla musichetta allegra di Jingle bells, con tanto di scritta: Buon Natale! Credette davvero di avere le traveggole, non era più la sua immaginazione. La visione era reale anche se poco definita, la musica era alta e sonora, la scritta era effettiva e ben composta. Pensò ad un miracolo, ma capì subito. Aveva programmato il timer dell’accensione del tv alle 24, per non scordarsi di fare gli auguri ai suoi genitori e questo s’avviò come stabilito. L’elettrodomestico proiettò i personaggi dello schermo sui vetri della finestra che le stava di fronte e che ben si prestavano allo scopo, anche perché Bruna, non aveva acceso le luci. Il chiarore del riflesso di quelle esterne riverberate dalla neve le era sufficiente per vedere e stava in penombra, rimuginando sulla sua vita.
Buon Natale a tutti! Continuarono le figure allegre sulla finestra finché Babbo Natale con la sua slitta non scomparve nel cielo scuro. Buon Natale!
Singhiozzando, tornò con lo sguardo sull’agendina…mamma e papà c’era scritto sulla pagina rimasta ostinatamente aperta. Allora, s’alzò, andò a prendere il suo cellulare e compose il numero.
- Bambina mia, buon Natale! –
Le rispose il padre con la voce un po’ rauca da vecchio.
– Buon Natale! –
Le gridò allegra la madre che gli era affianco.
- Buon Natale, mamma, buon Natale papà.
Bruna si sentì sollevata e si convinse che quella coincidenza di fatti non fu soltanto un caso. Fu un atto d’amore d’Emilio che era ancora lì con lei ad amarla e a proteggerla, come fece fin dal primo momento che la incontrò.
*Legenda con una sola g. Non è un refuso di stampa.
I nomi, i personaggi, le azioni che essi compiono e le circostanze in cui vengono a trovarsi sono frutto della fantasia creativa dell’autore. Ogni riferimento a cose, situazioni o a persone reali è, perciò, da ritenersi puramente casuale.