Rincontro

Marco camminava lentamente assaporando con gusto
l’aria calda e dolce di quella sera d’estate. Era solo.
Rispettava in pieno la tendenza storico sociale: né moglie né figli pur avendo
superato ormai la quarantina.
Gli capitava spesso, soprattutto durante le sere della bella
stagione, di bighellonare per Roma comportandosi, come lui
stesso amava definirsi, da turista nella sua città.
Il tiepido alito emanato dai palazzi antichi, dai loro muri
carichi di storia, lo avvolgeva rassicurandolo.
La cornice di piazza Farnese era stupenda e
il largo era reso ancora più
attraente da quel brulichio di persone
riversatesi lì, come lui, per cogliere il sogno di speranza di un incontro d’umanità
nascosto in fondo ad una fiera di ceramica artigianale.
L’evento era patrocinato dall’Assessorato regionale
al commercio, con tanto di striscione pubblicitario. Quello
stendardo di plastica catturò la sua attenzione: in fin dei conti
anch’egli continuava ad avere a che fare con il commercio ed
i vari Enti ad esso preposti.
Marco, però, era una strana specie di “turista” e più che
dalle bellezze architettoniche ed artigianali veniva attratto
da una forza antica, quasi chimica, che non gli permetteva di
rimanere la sera da solo, davanti alla luce azzurrognola
del televisore. Una impellenza che lo sospingeva fuori dalle
sue angustie domestiche a cercare l’altro, il suo simile.
Gli odori, il vocio, il calore fisico che quella massa di persone
emanava lo facevano sentir bene. Quietava in lui la sua angoscia
esistenziale, almeno per i lunghi attimi che gli concedeva questo
suo rituale, anestetizzava la fitta del morso crudo della sua solitudine.
Una presa penetrante che gli lasciava un livido violaceo e
dolente sull’anima; una stretta velenosa il cui solo antidoto
consisteva nel buttarsi fuori di casa ad incontrar la gente.
Si aggirava tra le bancarelle osservando ora un portavaso
decorato a mano ora una donna che, con gesto spontaneo si
tirava su i capelli accomodandoseli dietro il dorso
dell’orecchio.
Quanta grazia in un gesto così semplice, si sorprese a
pensare Marco, e in quel preciso istante, poverino, ebbe la
sensazione di lambire l’oscuro significato dell’equilibrio universale.
Così sospeso in questo suo stupore, si sentì chiamare e
faticò a ridiscendere con i piedi in terra.

“Marco!” ¬ era una voce dolce, femminile.

Marco si voltò e come se stesse affiorando dalle
profondità più oscure dei suoi ricordi, vide il volto di Sandra.
Per un attimo sbandò con la memoria, poi mise a fuoco e si lanciò
in un abbraccio gioioso.

“Sandra sei proprio tu?”. Disse, mentre una scarica
adrenalinica gli fece provare una strana sensazione di
smarrimento misto a languore, proprio alla bocca dello
stomaco. L’affollarsi dei pensieri e la forte emozione gli
fecero perdere per un istante l’equilibrio e per poco non
andò ad urtare il pianale della vicina bancarella, provocando
un vero disastro.

Sandra era una sua ex compagna di liceo, forse era stata
qualcosa di più e gli parve strano sorprendersi a pensare
come, spesso, amori e amicizie veramente profonde potessero
diventare dei vaghi volti che si perdono tra il tumulto dei ricordi.

“Non sei cambiato affatto ¬ sembri lo stesso di… quanti anni
sono passati? Gesù! Ventiquattro?”

“Sandra… Sandra … cosa hai combinato, dove sei stata
durante tutto questo tempo?”

“Beh, devi ammettere che così su due piedi non è facile
poterti dire tutto quello che mi è accaduto finora.” Gli
suggerì lei guardandolo teneramente negli occhi. Poi
continuò senza togliergli lo sguardo dal viso. Mi sono
sposata, ho avuto una bimba che è tutta la mia gioia, ho
divorziato da mio marito qualche mese fa ed
ora lavoro in un laboratorio di ceramiche e porcellane
artistiche con annesso negozio. L’ho aperto insieme con
Francesca un paio d’anni fa. Ti ricordi di Francesca?
Non va tanto male, sai? Siamo presenti in questa fiera
proprio per promuovere le nostre opere d’arte.”

Sandra rise. Marco vide che gli occhi le si strizzarono agli angoli nel
loro caratteristico modo mentre lei sorrideva e notò la
fossetta al lato della bocca sulla guancia. Quella fossetta
fu la cosa che lo affascinò di lei quando si conobbero a
scuola. Marco volò indietro con la memoria e non poté
trattenere un moto di commozione. Una stretta alla gola come
quando da piccoli si hanno le placche e bisogna deglutire per forza.

“Dimmi, ti ricordi Francesca?”. La voce di Sandra gli
rimbombava in testa come una eco che giungeva distorta,
ovattata.

Il blu profondo del suo sguardo non era cambiato, i suoi
capelli color mogano ed il suo calmo, bianco sorriso erano
gli stessi di un’eternità addietro. Quante volte aveva passato
le mani tra quei capelli? Quante volte aveva appoggiato le sue
labbra sulle sue gote a cercare quella rientranza per stuzzicarla.
C’era intimità allora, era permesso. La loro vicinanza fisica era
resa lecita da una sorta di accordo non scritto suggellato da un bacio.
Un semplice bacio aveva schiuso la possibilità di stringersi, di toccarsi,
di assaporarsi i corpi, la loro consistenza, il loro calore, la
loro reattività.
Un bacio appassionato li aveva condotti ad una conoscenza reciproca
maggiore, fino alla rivelazione dell’oscenità dei gesti e delle
pose dell’amore.
Ora non si poteva più, c’era il tempo ad essersi infilato di mezzo.
Il tempo, col suo polveroso distacco, aveva revocato il contratto degli amanti.
Ciò che era stato della loro sintonia fisica e spirituale era passato,
non esisteva più, non era più concesso. “Che assurdità!” Continuava a
riflettere. “Chi ha donato e ricevuto l’amore vero, profondo, non dovrebbe più
pretendere il diritto alla distanza affettiva.”.

“Ma… che mi dici di te?”. Marco precipitò di nuovo sulla
terra, tra il rumore e le voci della gente. Cercò di fare il disinvolto.

“Oè … beh, sono cambiate anche per me molte cose: mi sono
laureato in economia e specializzato in marketing e tecnica
finanziaria, lavoro all’Istituto Nazionale per il Commercio
Estero, non mi sono sposato e non ho figli … S’interruppe perché si
era accorto che un’altra frase su di sé e sulla sua vita trascorsa lo avrebbe
fatto scivolare nella sua solita, patetica precisione.
“Sarebbe una storia lunga sai?”.
“Non aggiungere altro!”. Le suggerì lei.
Per alcuni minuti rimasero impalati, silenziosi,
scrutandosi l’un l’altra nel fondo dei loro occhi, come se
fossero inebetiti. Ebbero entrambi una sensazione aliena,
extrasensoriale. Fu così, in quell’assurdo modo che
riuscirono inspiegabilmente, in pochi emotivi palpiti, a comunicarsi
tutto ciò che si era frapposto tra loro nell’arco del tempo trascorso, tutte
le loro esperienze, i problemi, le vittorie, le sconfitte, le gioie
ed i dolori.
Non ci fu nient’altro. Solo i loro occhi colmi dello scuro,
incombente cielo romano di piazza Farnese. Fu esaltante e
deprimente allo stesso tempo, come se avessero vissuto in un
attimo, insieme, il loro distacco durato ventiquattro anni.

In quel preciso momento, dalla parte posteriore della
Bancarella, uscì fuori Francesca.

Non aveva seguito il loro incontro e disse con tono
sarcastico a Sandra:

“Ehi bimba, si può sapere che accidenti stai facendo lì
ferma e muta a bocca aperta come un pesce rosso?!”.

Poi, accorgendosi di Marco e riprendendo un tono di voce
più serio.

“E chi è quest’uomo?”.

“Francesca Lombardi!”. Marco le pronunciò scandendo in maniera chiara
il nome ed il cognome, sicuro di farle una gradita sorpresa.
Francesca lo scrutò in volto, lo riconobbe ma, al contrario
di quanto Marco avrebbe potuto aspettarsi, lei ebbe uno
scarto nervoso e si mostrò piuttosto agitata.
“Oh, Marco!”. Disse con voce rauca ed un po’ alterata mentre
tentava di infilarsi una giacchetta a grandi fiori colorati.
Durante questo nervoso tentativo Marco distinse bene le cicatrici
sulle sue braccia e le sue vene martoriate. Si rese
immediatamente conto e una parola gli esplose in mente:
eroina!
Sandra lo fissò ancora, anche Francesca capì. Ci fu una
manciata di silenzio che sembrò durare un’eternità. Quindi
Marco, come imbambolato, allungò il braccio verso di lei e
allungò la mano verso il viso, con gesto impacciato e un po’
goffo. Lei scansò di colpo la testa e disse con tono arrogante e
deciso:
“Ma che cazzo fai!”.
Poi, dopo qualche altro attimo, aggiunse con inflessione più
educata, ma caricata e ironica: “Le mani mettitele in tasca!”.
Quindi fletté il capo leggermente verso la sua spalla destra
e continuò ad armeggiare con i prodotti di ceramica fingendo di metterli a posto.
“Scusami tanto.”.
Ebbe appena modo di farfugliare Marco.

“Dio mio, Dio come sei cambiata!”. Si sorprese di nuovo a pensare,
invece, senza riuscire a fermare il fiume delle sue amare
riflessioni.
I suoi capelli sempre lucidi e del color del miele ora gli
ricordavano più gli steli di una vecchia scopa di saggina e
la sua proverbiale pelle liscia come la porcellana mostrava i
segni di un invecchiamento precoce, alcune rughe più profonde
di altre le solcavano la fronte. Nei suoi occhi screziati
d’oro, che lasciavano intravedere lo spavento della sua
condizione, si apriva un vuoto di disperazione.
Marco continuava a pensare, senza riuscire a fermarsi, a
quei giorni di inizio primavera in cui tutto il gruppo della
classe decideva di far filotto a scuola per andare ad
infilarsi nel parco di villa Pamphili, sbragandosi sull’erba.
C’era sempre qualcuno che portava la chitarra e canti e
battute scherzose, inoffensive anche se all’apparenza
caustiche. Ma c’era soprattutto la felicità inconsapevole
di essere spensierati e adolescenti.
“Hai intenzione di comprare qualcosa?”.
La voce di Francesca irruppe con il fragore di una
cristalliera che va in frantumi e pose fine all’interminabile
ed imbarazzante silenzio.
Marco si sentì come preso al petto da una stretta soffocante.

“Sì, certo!”. Rispose biascicando ancora attonito e, acquistando
tempo, si guardò intorno. Scorse, quindi, sulla bancarella un
paralume a forma di Pierrot che imbracciava un mandolino e guardava in alto
verso uno spicchio di luna posizionato intorno alla lampadina. Non
riusciva a decidersi a causa del suo imbarazzo. Francesca, allora, lo anticipò
venendogli in aiuto. Glielo sfilò dal gruppo delle ceramiche esposte
sul bancone.
“Sarà lui a cantarti la mia ninna nanna tutte le sere prima
d’addormentarti.”. Il tono di voce era rauco e Marco
non riuscì a decifrare se fosse dolce o graffiante.
Mentre era intenta ad avvolgergli il
Pierrot in un foglio di carta lucida e spessa, lui si
avvicinò chinando la testa verso di lei.
“Ne sono più che sicuro.”. Riuscì a sussurrarle
all’orecchio.
“Ciao Marco.”. Tagliò corto Francesca gentile, ma decisa.
“Ciao Francesca e abbi cura di …”. Non finì la frase
poiché si rese conto della gaffe, continuò a guardarla negli
occhi e si beccò una risata ghiacciata in pieno viso che gli
fece contrarre il volto in quel che sarebbe potuto sembrare
anch’essa una risata, ma che era invece una smorfia di grande imbarazzo.
“Vieni a trovarci ancora.”. Intervenne Sandra, mettendogli il
braccio sotto il suo, trascinandolo via con molto tatto.
“Questo è l’indirizzo del nostro negozio a Trastevere.” E
gli infilò un bigliettino nel taschino della giacca.
“D’accordo … certo … certo … verrò, ciao Sandra.”.
“Stettero così ancora per alcuni secondi, uno di fronte all’altra
scrutandosi il volto in cerca di qualcosa di perduto che non
riuscivano ormai più a trovare. Quindi Marco camminò via senza
girarsi per un ultimo saluto di cortesia. Provava dentro di sé
una tristezza cieca ed una costernazione profonda.
Aveva la sensazione di essere sul set di un film americano
degli anni Quaranta e d’interpretare malamente una parte che
non gli si addiceva. Troppe volte aveva visto proiettate sul
grande schermo situazioni così romanzate e oggi, che gli
capitava tutto questo, aveva quasi difficoltà a distinguere la
realtà dalla finzione. Fu di cattivo umore per molti giorni e neanche
più l’uscire di sera, mescolandosi alla folla delle varie
occasioni, riusciva a procurargli quel momento rigeneratore
così magico.
Due anni più tardi mentre volava in business class verso
Düsseldorf per partecipare all’annuale fiera campionaria
di quella città, spiegò un quotidiano romano per ingannare un
po’ di tempo con la lettura. Gli piaceva leggere la cronaca
di Roma, quasi come se fosse un filo invisibile che lo manteneva
in contatto con la sua gente, quelle stesse anonime persone di
cui andava cercando l’afflato quando usciva a passeggiare nelle
vie e nelle piazze. Nella cronaca, a differenza delle pagine
della politica e dell’economia, ci trovava la vita, quella vera,
quella spicciola, fatta di piccoli-grandi fatti, spesso drammatici, a
volte addirittura ignobili, ma sempre più istruttivi di tanti
discorsi o pubblicazioni blasonate sul sociale ed i suoi problemi.
Provò un tuffo al cuore ed il sangue gli si fermò di colpo
quando lesse la notizia: “Ennesimo decesso a causa del traffico di
stupefacenti. Una donna tossico-dipendente moriva per overdose nel bagno
del suo laboratorio artigianale di ceramiche a Trastevere …Inutile la chiamata
dei soccorsi effettuata dalla convivente.”. Si sedette dritto, stropicciò
il giornale, lo spiegazzò e con la vista andò ad isolare il particolare
di cronaca. Lo lesse e lo rilesse, per essere certo di aver capito, con
la speranza di aver sbagliato. Invece no, l’articolista aveva riportato
anche il nome del laboratorio e l’indirizzo: era lei! Era proprio
lei: Francesca.
Guardò attraverso l’oblò in basso le nuvole e si sentì proiettare
fuori, sopra quelle formazioni che sembravano panna montata.
S’immaginò galleggiare dentro quella sostanza leggera e viscosa,
ne percepì addirittura la consistenza dell’abbraccio freddo e soffocante.
Allora, quasi a voler cercare nuovamente un contatto solido con la materia,
accarezzò con la mano il bracciolo di pelle del suo sedile. Era diventato
pallido in volto ed il suo pallore insospettì la hostess che, con fare
discreto e professionale, gli chiese se tutto andasse bene.
Lui la guardò attonito per pochi secondi, perché la voce di
quel volto aggraziato non gli giunse in sincronia con il movimento delle
labbra, poi capì cosa gli stesse chiedendo e la tranquillizzò.
Con un gesto studiato inclinò il sedile, appoggiò la tempia
al poggiatesta, emanò un lungo sospiro e chiuse gli occhi.